I Quaderni della Comunità n° 3/2010
Comunità S. Volto di Gesù
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La misericordia di Dio nella Scrittura
(Padre Maurizio Napoli)
11 Aprile 2010
(pro - manoscritto ad uso interno della comunità)
Premessa
Tutta la storia della salvezza non fa che dimostrare come l’amore misericordioso di Dio prevalga sul peccato e sull’infedeltà dell’uomo.
Fin dalla prima caduta, il Padre cerca di liberare l’uomo dalla condizione di morte e di peccato, mettendolo in grado di vivere il progetto originale che Egli ha stabilito per lui.
Dio non ha mai abbandonato le sue creature nonostante la loro iniquità e infedeltà; anzi, Egli per primo si è chinato sull’uomo per rialzarlo.
Tutta la Bibbia racconta come Dio Padre, fedele al suo amore verso l’uomo, fa di tutto perché si converta.
Vorrei, seppure brevemente, far emergere dalla scrittura alcuni aspetti della misericordia di Dio che, a mio parere, sono i più significativi.
Prenderemo in esame alcuni brani sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, premettendo alcune considerazioni sui vocaboli che la Bibbia usa per esprime la misericordia di Dio e aggiungendo delle citazioni dell'Enciclica di Giovanni Paolo II sulla misericordia: la “Dives in Misericordia”.
► Nel testo ebraico
- Il primo termine che indica la misericordia è rehamîm, “viscere”: con questa parola, si allude al sentimento intimo e profondo che lega due esseri per ragioni di sangue e di cuore, come avviene nel rapporto d’amore fra genitori e figli, o tra fratelli.
Questo amore totalmente gratuito corrisponde a una necessità interiore, a un’esigenza del cuore.
- Il secondo termine hesed designa “bontà”, “pietà”, “compassione”, “perdono” e ha per fondamento la fedeltà di Dio: Dio è fedele a se stesso e mantiene la parola nonostante tutto.
- A questi vocaboli se ne aggiungono almeno altri tre, spesso usati accanto a rehamîm:
hanan, ovvero “mostrare grazia”, “essere clemente”;
hamal, ovvero “compiangere”, “sentire compassione”, “risparmiare”;
hus, ovvero “essere commosso”, “avere misericordia”.
► Nel testo greco
Troviamo vocaboli che riflettono i concetti dell’originale ebraico, sebbene il loro significato non sia sempre perfettamente identico, a causa della ricchezza semantica della lingua ebraica.
- Il termine più usato, sia nella LXX sia nel Nuovo Testamento, è eléo, traduzione di hesed. Secondo gli esegeti eléo, che significa “aver misericordia” e “agire con misericordia”, allude a Dio che usa pietà nei confronti degli uomini.
- Altra parola del testo greco è oiktirmòs (“compianto”, “commiserazione”), che sottolinea l’aspetto esterno del sentimento di compassione. Questo termine rende l’ebraico rehamîm e anche i vocaboli che significano “grazia” e “favore”.
- Infine, splanchna che equivale a rehamîm ed esprime amore, tenerezza, simpatia, benignità, ma anche misericordia e compassione.
Dunque, le espressioni bibliche usate per indicare la misericordia divina possono essere così sintetizzate:
MISERICORDIA = avere amore; tenerezza; simpatia; benignità; viscere di misericordia; mostrare grazia, favore; essere clemente; risparmiare; compiangere; sentire compassione; essere commosso; commiserare.
Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica, ci dice che: “Il concetto di misericordia nell'Antico Testamento ha una sua lunga e ricca storia. Il popolo dell'Antica Alleanza, infatti, aveva tratto dalla sua plurisecolare storia una peculiare esperienza della misericordia di Dio. Israele, infatti, fu il popolo dell'alleanza con Dio, alleanza che molte volte infranse. Quando prendeva coscienza della propria infedeltà - e lungo la storia d'Israele non mancarono profeti e uomini che risvegliavano tale coscienza -, faceva richiamo alla misericordia. In merito, i libri dell'Antico Testamento ci riportano moltissime testimonianze. È significativo che i profeti nella loro predicazione colleghino la misericordia, alla quale fanno spesso riferimento a causa dei peccati del popolo, con l'immagine dell'amore da parte di Dio.
Il Signore ama Israele con un amore di particolare elezione, simile all'amore di uno sposo e perciò perdona le sue colpe e perfino le infedeltà e i tradimenti. Nella predicazione dei profeti la misericordia è una speciale potenza dell'amore, che prevale sul peccato e sull'infedeltà del popolo eletto. Nei fatti come nelle parole, il Signore ha rivelato la sua misericordia fin dai primordi del popolo che si è scelto. Tutte le sfumature dell'amore si manifestano nella misericordia del Signore verso i suoi: Egli è il loro padre poiché Israele è suo figlio primogenito. È anche lo sposo di colei a cui il profeta annuncia un nome nuovo: ruhamah, beneamata, perché a lei sarà usata misericordia.
Anche quando, esasperato dall'infedeltà del suo popolo, il Signore decide di farla finita con esso, sono ancora la tenerezza e il suo amore generoso per il medesimo a fargli superare la collera. È facile allora comprendere perché i salmisti, che desiderano cantare le più sublimi lodi del Signore, intonano inni al Dio dell'amore, della tenerezza, della misericordia e della fedeltà. In tal modo, la misericordia viene, in certo senso, contrapposta alla giustizia divina e si rivela, in molti casi, non solo più potente di essa, ma anche più profonda. L'amore, per cosi dire, condiziona la giustizia e, in definitiva, la giustizia serve la carità. Il primato e la superiorità dell'amore nei riguardi della giustizia si manifestano proprio attraverso la misericordia” (Cf. DM 3,4).
E ora andiamo, brevemente, ai testi.
Alla luce della Parola e dell'esperienza spirituale personale di Dio, la prima cosa che il credente comprende è il suo amore, fatto di bontà e di misericordia.
Nella misura in cui si percepisce il suo amore, si ritrova anche il senso del peccato e con esso l'esigenza di conversione e, soprattutto, il bisogno di porre a fondamento della propria vita la fede. Dio, creando l’uomo a sua immagine e somiglianza, l’ha chiamato a essere in comunione con Lui. Il Creatore vuole, di fatto, condividere con l'uomo la vita e l’amore che lo pervade. Egli non desiste da questa sua intenzione, nonostante il peccato dell’uomo e la sua ribellione al piano Creatore (Cf. Gn 3).
Dio cerca l'uomo peccatore, per offrirgli la sua salvezza. Lo fa scegliendo alcuni e poi la nazione intera, con cui stringere il suo primo patto di alleanza che dimostra, da subito, la profondità del suo amore di misericordia, in quanto è il Signore stesso che si obbliga ad amare l’uomo e ad essere fedele alle sue promesse, non viceversa.
Tutta la storia d’Israele altro non è che il racconto della fedeltà di Dio che si perpetua e delle infedeltà e i tradimenti del popolo eletto.
- Isaia 43,22-28, è un esempio tra i tanti dell’infedeltà del popolo. Il brano fa parte di un discorso tra Dio e l'uomo che evidenzia il peccato umano e il costante atteggiamento di perdono di Dio. Il Signore ricorda le colpe commesse dai suoi eletti ma, nel contempo, l’accusa è subito seguita da una promessa di salvezza (Is 44,1-4):
“Tu non mi hai invocato, o Giacobbe; anzi ti sei stancato di me, o Israele. Non mi hai portato neppure un agnello per l'olocausto, non mi hai onorato con i tuoi sacrifici. Io non ti ho molestano con richieste di offerte, né ti ho stancato esigendo incenso. Non mi hai acquistato con denari la cannella, né mi hai saziato con il grasso dei tuoi sacrifici.
Ma tu mi hai dato molestia con i peccati, mi hai stancato con le tue iniquità. Io, io cancello i tuoi misfatti, per riguardo a me non ricordo più i tuoi peccati. Fammi ricordare, discutiamo insieme; parla tu per giustificarti. Il tuo primo padre peccò, i tuoi intermediari mi furono ribelli. I tuoi principi hanno profanato il mio santuario; per questo ho votato Giacobbe alla esecrazione, Israele alle ingiurie. Ora ascolta, Giacobbe mio servo, Israele da me eletto. Così dice il Signore che ti ha fatto, che ti ha formato dal seno materno e ti aiuta: Non temere, Giacobbe mio servo, Iesurùn da me eletto, poiché io farò scorrere acqua sul suolo assetato, torrenti sul terreno arido. Spanderò il mio spirito sulla tua discendenza, la mia benedizione sui tuoi posteri; cresceranno come erba in mezzo all'acqua, come salici lungo acque correnti”.
Dio rimane fedele, nonostante l’infedeltà del popolo, e il suo amore non viene meno, non cambia, poiché è più grande del peccato. Per riguardo a se stesso Dio s’impegna a perdonare la nazione eletta.
- Tra i profeti, Osea è certamente, più di altri autori sacri, quello che esprime in modo eccezionale l’amore di Dio, presentando il Signore come l’innamorato del suo popolo e ricorrendo a diverse metafore per descriverne i sentimenti verso l’uomo.
Il capitolo undici della sua
opera, descrive il rapporto di Dio con Israele accostandolo a quello di un
Padre verso il proprio figlio. Egli tenta di sfamare questo figlio capriccioso,
sollevandolo fino alla guancia; lo prende per mano, insegnandogli a muovere i
primi passi; gli mostra il suo amore in ogni modo ma il figlio, non solo non
riconosce la bontà del Padre, anzi, si allontana sempre più da Lui.
Dio Padre sembra intenzionato a castigarlo ma il discorso sul castigo all’improvviso si interrompe e, come se Dio ricordasse il suo amore, torna a dar sfogo al suo cuore con espressioni di grande tenerezza:
“Quando Israele era giovinetto, io l'ho amato e dall'Egitto ho chiamato mio figlio. Ma più li chiamavo, più si allontanavano da me; immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi. Ad Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d'amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare. Ritornerà al paese d'Egitto, Assur sarà il suo re, perché non hanno voluto convertirsi. La spada farà strage nelle loro città, sterminerà i loro figli, demolirà le loro fortezze. Il mio popolo è duro a convertirsi: chiamato a guardare in alto nessuno sa sollevare lo sguardo. Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele? Come potrei trattarti al pari di Admà, ridurti allo stato di Zeboì? Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all'ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira. Seguiranno il Signore ed Egli ruggirà come un leone: quando ruggirà, accorreranno i suoi figli dall'occidente, accorreranno come uccelli dall'Egitto, come colombe dall'Assiria e li farò abitare nelle loro case. Oracolo del Signore” (Is 11,1-11).
Il Padre Eterno non può comportarsi diversamente; avendo scelto Israele come suo figlio, non può più negargli il suo amore; non può distruggerlo!
Egli è Dio non un uomo; è santo, infinitamente buono e giusto; non può operare impulsivamente.
La stessa idea viene espressa anche con il riferimento all'amore sponsale tra Dio e le sue creature.
- In Osea 2,16-25 Dio, sposo tradito, prende l’iniziativa di strappare Israele, sua sposa infedele, da tutti i suoi amanti. Il Signore la condurrà nel deserto per parlare al suo cuore (Cf v. 16) e l’amata ritornerà. Si celebrerà un nuovo fidanzamento che annullerà il passato di miserie e di adulteri: “Perciò, ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Le renderò le sue vigne e trasformerò la valle di Acòr in porta di speranza. Là canterà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d'Egitto. E avverrà in quel giorno - oracolo del Signore - mi chiamerai: Marito mio, e non mi chiamerai più: Mio padrone. Le toglierò dalla bocca i nomi dei Baal, che non saranno più ricordati. In quel tempo farò per loro un'alleanza con le bestie della terra e gli uccelli del cielo e con i rettili del suolo; arco e spada e guerra eliminerò dal paese; e li farò riposare tranquilli. Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell'amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore. E avverrà in quel giorno - oracolo del Signore - io risponderò al cielo ed esso risponderà alla terra; la terra risponderà con il grano, il vino nuovo e l'olio e questi risponderanno a Izreèl. Io li seminerò di nuovo per me nel paese e amerò Non-amata; e a Non-mio-popolo dirò: Popolo mio, ed egli mi dirà: Mio Dio” (Os 2,16-25).
Osea non ha paura di usare la metafora dell’amore coniugale per esprimere l’amore totale, assoluto, di Dio per il suo popolo.
Non è solo nel libro di Osea, ovviamente, che troviamo queste espressioni. Anche negli altri libri dell’Antico Testamento emergono passi in cui l'amore del Signore viene espresso usando tutti i possibili paralleli con le innumerevoli espressioni dell'amore umano.
Lo scopo degli autori sacri è affermare, nella maniera più forte e più chiara possibile, la fedeltà di Jahvè nel suo amore verso l’uomo. Nessun comportamento del popolo può fare perdere a Dio l’amore.
L’esperienza che ne deriva è quella di un Dio indulgente che, amando il suo popolo, esercita continuamente la propria grazia, tanto verso gli individui quanto verso l’intera nazione. La sua misericordia, che vuole perdonare e dimenticare le colpe, è più potente di ogni peccato, come leggiamo nel Salmo 130: “Se consideri le colpe, Signore, chi potrà sussistere? Ma presso di te è il perdono perciò avremo il tuo timore” (Sal 130,3-4).
- Sa bene questa verità il profeta Michea che lamenta la corruzione del popolo, pur essendo consapevole, d’altra parte, che Jahvé è più potente di tutte le miserie umane:
“L'uomo pio è scomparso dalla terra, non c'è più un giusto fra gli uomini: tutti stanno in agguato per spargere sangue; ognuno dà la caccia con la rete al fratello. Le loro mani son pronte per il male; il principe avanza pretese, il giudice si lascia comprare, il grande manifesta la cupidigia e così distorcono tutto. Il migliore di loro non è che un pruno, il più retto una siepe di spine, Il giorno predetto dalle tue sentinelle, il giorno del castigo è giunto, adesso è la loro rovina. Non credete all'amico, non fidatevi del compagno.
Custodisci le porte della tua bocca davanti a colei che riposa vicino a te. Il figlio insulta suo padre, la figlia si rivolta contro la madre, la nuora contro la suocera e i nemici dell'uomo sono quelli di casa sua. Ma io volgo lo sguardo al Signore, spero nel Dio della mia salvezza, il mio Dio m'esaudirà. Qual dio è come te, che togli l'iniquità e perdona il peccato al resto della sua eredità; che non serba per sempre l'ira, ma si compiace d'usar misericordia? Egli tornerà ad aver pietà di noi, calpesterà le nostre colpe. Tu getterai in fondo al mare tutti i nostri peccati. Conserverai a Giacobbe la tua fedeltà, ad Abramo la tua benevolenza, come hai giurato ai nostri padri fino dai tempi antichi” (Mic 7,2-7.18-20).
Guardando la sua nazione il profeta non vi trova nulla di “pio” o di “giusto”: nessuno rispetta il diritto del proprio fratello, mentre giudici e funzionari badano più ai loro interessi che alla verità e alla giustizia di cui sono responsabili. Ma, anche in questa situazione, Michea non perde fiducia nella fedeltà di Dio e, terminando la lista dei peccati di Israele, afferma: “Ma io volgo lo sguardo al Signore, spero nel Dio della mia salvezza, il mio Dio m’esaudirà”. Il brano, così, si conclude con un inno al Dio fedele e misericordioso, in cui il profeta esprime la certezza che Dio perdonerà tutte le colpe del suo popolo perché è fedele alle sue promesse.
- Anche nella vicenda di Davide (2Sam 11-12) si evidenzia con chiarezza l'amore di Dio e il suo costante atteggiamento di perdono. Davide si è comportato come un criminale per i suoi peccati di adulterio e di omicidio. Il profeta Natan è inviato al re per scuoterlo e metterlo sulla strada del pentimento.
Racconta la parabola della pecora a cui segue l’elenco dei vari benefici che Dio ha concesso a Davide: tutto questo per fare emergere la gravità del suo peccato.
E lo scopo viene raggiunto: il re si apre totalmente a Dio confessando la propria colpa. Senza superflui commenti o giustificazione afferma: “Ho peccato contro il Signore!” (2Sam 12,13). Il pentimento di Davide riceve la risposta immediata di Dio nel perdono: “Il Signore ha perdonato i tuoi peccati; tu non morirai” (2Sam 12,13).
È importante notare che qui l’iniziativa del perdono scaturisce da Dio stesso. È Lui, infatti, ad avergli inviato il profeta Natan. Ed è solo alla luce della Parola di Dio che il re può riconoscere la propria colpa.
- Sulla scia di questa sottolineatura, riguardo l'agire di Dio per avviare il processo di riconciliazione con l'uomo, si incentra anche un brano conosciutissimo del libro di Ezechiele: Ez 36,16-38.
“Mi fu rivolta questa parola del Signore: Figlio dell'uomo, la casa d'Israele, quando abitava il suo paese, lo rese impuro con la sua condotta e le sue azioni. Come l'impurità di una donna nel suo tempo è stata la loro condotta davanti a me. Perciò ho riversato su di loro la mia ira per il sangue che avevano sparso nel paese e per gli idoli con i quali l'avevano contaminato. … Costoro sono il popolo del Signore e tuttavia sono stati scacciati dal suo paese. Ma io ho avuto riguardo del mio nome santo, che gli Israeliti avevano disonorato fra le genti presso le quali sono andati. Annunzia alla casa d'Israele: Così dice il Signore Dio: Io agisco non per riguardo a voi, gente d'Israele, ma per amore del mio nome santo, che voi avete disonorato fra le
genti presso le quali siete andati. Santificherò il mio nome grande, disonorato fra le genti, profanato da voi in mezzo a loro. Allora le genti sapranno che io sono il Signore - parola del Signore Dio - quando mostrerò la mia santità in voi davanti ai loro occhi. Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio...”.
Qui il profeta parla della restaurazione d’Israele che sarà essenzialmente interiore. Dio stesso purificherà il popolo dai suoi peccati, infonderà il suo Spirito, principio di vita nuova, e sostituirà il cuore di pietra, reso duro dal peccato, con un cuore giusto e fedele. Notiamo che a Dio non basta perdonare, far riavvicinare il popolo, ma desidera instaurare un rapporto nuovo che li ponga in piena sintonia con i propri voleri. La grande restaurazione del popolo eletto, che ai tempi di Ezechiele si trovava in esilio e aspettava la liberazione, insieme alla consolazione presente, manifesta il perdono escatologico, perdono che avrà il carattere dell’universalità; unirà le genti, che il peccato ha diviso, e sarà definitivo, eterno, restaurando l’armonia primitiva.
Questo è il progetto che persegue Dio nella sua misericordia verso l'uomo. La misericordia di Dio si manifesta in questa sua fedeltà nella realizzazione della salvezza.
L’Antico Testamento, quindi, annuncia la misericordia di Dio come un bene futuro, oltre che presente, come il frutto dell'avvento del Messia che comporterà una trasformazione completa e radicale dell’uomo.
Gesù Cristo, che noi riconosciamo come il Messia, porta il perdono di Dio all'umanità.
Tutta la vita di Gesù è caratterizzata dalla solidarietà, dall’accoglienza, dall'amore verso i peccatori; amore che trova la sua massima espressione nel sacrificio sulla Croce.
Il comportamento di Gesù era contrario agli insegnamenti comuni dei rabbini, che raccomandavano di non cercare la compagnia dell’empio. Il Cristo, non solo sta in compagnia dei peccatori ma si fa anche invitare a casa loro, come nel caso di Matteo (Mt 9,9-13) e di Zaccheo (Lc 19,1-10).
Entrambi erano pubblicani, cioè peccatori pubblici: non a caso la confidenza dimostrata da Gesù verso di loro provocherà le maldicenze della gente.
Nel caso di Matteo, mormorano solo i farisei, ma quando Gesù va a casa di Zaccheo, Luca nota che “tutti mormoravano”.
Di fatto, per i giudei, il comportamento di Gesù verso i pubblicani era assurdo, perché ritenevano che Dio avesse in odio tutti i peccatori. Ma Egli non condivide la loro maniera di ragionare: sa bene che “non è venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9,13) e che è venuto “a cercare e a salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10).
La sua missione è esattamente quella di portare la riconciliazione del Padre a chi si è allontanato da Lui; di offrire ad ogni fragilità umana l'occasione di riscatto nel suo amore.
Leggiamo, a riguardo, sempre dall'Enciclica “Dives in Misericordia”:
“Soprattutto con il suo stile di vita e con le sue azioni, Gesù ha rivelato come nel mondo in cui viviamo è presente l'amore, l'amore operante, l'amore che si rivolge all'uomo e abbraccia tutto ciò che forma la sua umanità. Tale amore si fa particolarmente notare nel contatto con la sofferenza, l'ingiustizia, la povertà, con tutta la condizione umana storica, che in vari modi manifesta la limitatezza e la fragilità dell'uomo, sia fisica che morale. Proprio questo manifestarsi dell'amore divino viene denominato nel linguaggio biblico misericordia. Cristo, così, rivela Dio che è Padre, che è amore, che è ricco di misericordia, come si esprimono san Giovanni e san Paolo nelle loro lettere” (Cf. DM 2,3).
Per manifestare all'uomo la presenza di Dio che è Padre, amore e misericordia, Gesù fa, inoltre, della misericordia stessa uno dei principali temi della sua predicazione. E comunica innanzitutto in parabole, perché queste esprimono meglio, e in modo più immediato, l'essenza stessa delle cose. Basta ricordare la “parabola del figliol prodigo”, oppure quella del “buon samaritano”, ma anche - per contrasto - la “parabola del servo spietato”... Sono molti i passi dell'insegnamento di Cristo che manifestano l'amore e la misericordia sotto un aspetto sempre nuovo. È sufficiente avere davanti agli occhi il buon pastore che va in cerca della pecorella smarrita, oppure la donna che spazza la casa in cerca della dramma perduta...
- Ma l'apice di ogni espressione dei vangeli sulla misericordia si ha nella “parabola del figliol prodigo” (Lc 15,11-32) che Giovanni Paolo II analizza nella sua Enciclica
(Cf. DM 4,5-6.5,7-8), ponendo in risalto la misericordia che caratterizza il padre del racconto di Gesù. Di fatto, dall'uscita dell'Enciclica, questa parabola non verrà più indicata come “parabola del figliol prodigo” ma come “parabola del padre misericordioso”.
Per il Papa quel figlio, che riceve dal padre la porzione di patrimonio che gli spetta e lascia la casa per sperperarla in un paese lontano “vivendo da dissoluto”, è, in un certo senso, l'uomo di tutti i tempi, cominciando da colui che per primo perdette l'eredità della grazia e della giustizia originaria (Adamo). L'analogia è molto ampia: la parabola tocca indirettamente ogni rottura dell'alleanza d'amore, ogni perdita della grazia, ogni peccato. Il patrimonio che quel tale aveva ricevuto dal padre era una risorsa di beni materiali ma, più importante ancora, era la sua dignità di figlio nella casa paterna. La situazione in cui venne a trovarsi al momento della perdita dei beni materiali doveva renderlo cosciente della perdita di questa dignità. Egli non ci aveva pensato prima, quando aveva chiesto al padre di dargli la parte del patrimonio che gli spettava; e sembra che non ne sia consapevole neppure quando dice a se stesso: “Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza, ed io qui muoio di fame!”.
Egli misura se stesso con il metro dei beni che ha perduto, che non possiede più, mentre i salariati in casa di suo padre li posseggono. Ma sotto la superficie si cela il dramma della dignità perduta, la coscienza della figliolanza sciupata.
È allora che egli prende la decisione: “Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni”.
Parole che svelano come attraverso la complessa situazione materiale, in cui era venuto a trovarsi a causa della sua leggerezza, del suo peccato, era maturato in lui il senso della dignità perduta. Egli si rende conto che non ha più alcun diritto, se non quello di essere mercenario nella casa del padre. La sua decisione è presa in piena coscienza di ciò che ha meritato e di ciò a cui può ancora aver diritto secondo giustizia.
Proprio questo dimostra che, al centro della coscienza del figliol prodigo, emerge il senso di quella dignità che scaturisce dal rapporto del figlio col padre. Ed è con questa decisione che egli si incammina per far ritorno a casa.
Nella parabola non è usato neanche una sola volta il termine “giustizia”, cosi come non è usato quello di “misericordia”; tuttavia, nel contenuto, è evidente che l'amore si trasforma in misericordia quando occorre superare la precisa norma della giustizia; precisa e spesso troppo stretta.
Il figliol prodigo, consumate le sostanze ricevute dal padre, merita di guadagnarsi da vivere lavorando nella casa paterna come mercenario. Tale sarebbe l'esigenza dell'ordine di giustizia e così sente in cuor suo il figliol prodigo.
Questa immagine dello stato d'animo del figliol prodigo ci permette di comprendere con esattezza in che cosa consista la misericordia divina. Non vi è alcun dubbio che la figura del genitore ci svela Dio come Padre. Il comportamento del padre della parabola e tutto il suo modo di agire, che manifestano il suo atteggiamento interiore, ci consentono di ritrovare tutti i dati della visione vetero-testamentaria della misericordia, in una sintesi totalmente nuova, piena di semplicità e di profondità. Il padre del figliol prodigo è fedele alla sua paternità, fedele a quell'amore che da sempre elargiva al proprio figlio.
Tale fedeltà si esprime nella parabola non soltanto con la prontezza immediata nel riaccogliere in casa colui che ritorna dopo aver sperperato il patrimonio ma anche, e ancor più pienamente, con quella gioia, con quella festosità cosi generosa, che è tale da suscitare l'opposizione e l'invidia del fratello maggiore, il quale non si era mai allontanato dal padre e non ne aveva abbandonato la casa.
La fedeltà del padre a se stesso - un tratto del suo essere già noto nell'Antico Testamento ed espresso col termine “hesed” - viene qui espressa in un modo particolarmente carico di affetto.
Leggiamo infatti che, quando il padre vide il figlio tornare a casa: “commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò”. Sebbene abbia sperperato il patrimonio, è e resta figlio per il padre, soprattutto ora che “è stato ritrovato”, come rivelano le parole che il padre rivolge al figlio maggiore. Nello stesso capitolo quindici del Vangelo di Luca, leggiamo la “parabola della pecora ritrovata” (Lc 15,4-7) e, successivamente, la “parabola della dramma ritrovata” (Lc 15,8-9). Ogni volta è posta in rilievo la medesima gioia presente nel caso del figliol prodigo.
La fedeltà del padre a se stesso è totalmente incentrata sull'umanità del figlio perduto, sulla sua dignità ritrovata. Così si spiega la gioiosa commozione al momento del suo ritorno a casa.
Si può dire, dunque, che l'amore verso il figlio, l'amore che scaturisce dall'essenza stessa della paternità, obbliga in un certo senso il padre ad avere sollecitudine della dignità del figlio, chiedendo che venga rivestito: “Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi”.
Questa sollecitudine costituisce la misura dell'amore del padre, amore di cui scriverà poi san Paolo: “La carità è paziente, è benigna la carità..., non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto..., si compiace della verità..., tutto spera, tutto sopporta - e - non avrà mai fine” (Cf. 1Cor 13,1-8).
La misericordia - come l'ha presentata Cristo nella parabola - ha la forma interiore dell'amore che nel Nuovo Testamento è chiamato “agápe”. Tale amore è capace di chinarsi su ogni figlio prodigo, su ogni miseria umana e, soprattutto, su ogni miseria morale, ovvero sul peccato. E quando ciò avviene, colui che è oggetto della misericordia non si sente umiliato, ma ritrovato e rivalutato. Il padre gli manifesta, innanzitutto, la gioia che sia stato “ritrovato” e che sia “tornato in vita”, restituendogli dignità. Il vestito, i calzari, l'anello sono segno di questa dignità ripristinata.
La parabola, inoltre, esprime in modo semplice, ma profondo, anche la realtà della conversione.
Questa è la più concreta espressione dell'opera e della presenza dell'amore e della misericordia di Dio nel mondo. Il significato vero e proprio della misericordia non consiste soltanto nello sguardo penetrante e compassionevole rivolto verso il male morale, fisico o materiale; essa si manifesta nel suo aspetto vero e proprio quando rivaluta, promuove e trae il bene da tutte le forme di male esistenti nel mondo e nell'uomo. Così intesa, la misericordia costituisce il contenuto fondamentale del messaggio messianico di Cristo e la forza della sua missione.
5. La misericordia rivelata nella croce e nella resurrezione
- Il mistero pasquale sarà il compimento e l'attuazione della rivelazione della misericordia, che è capace di giustificare l'uomo, di ristabilire la giustizia, cioè, l'ordine salvifico che Dio dal principio aveva voluto per l'uomo e, mediante l'uomo, nel mondo.
Cristo sofferente parla in modo particolare all'uomo, non soltanto al credente. Anche l'uomo non credente può scoprire in Lui la solidarietà con la sorte umana, come pure la sua disinteressata dedizione alla causa dell'uomo, alla verità e all'amore.
La dimensione divina del mistero pasquale giunge, tuttavia, ancor più in profondità.
La croce, su cui Cristo svolge il suo ultimo dialogo col Padre, ci rivela che Dio non rimane soltanto in stretto collegamento col mondo come creatore. Egli è anche Padre e l'uomo, da lui chiamato all'esistenza nel mondo, è unito a Lui da un vincolo ancor più profondo di quello creativo: è reso partecipe della vita stessa di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo.La croce di Cristo sul Calvario realizza il comunicarsi di Dio all'uomo: donando se stesso a Dio padre, Cristo dona con sé tutto il mondo visibile, perché partecipi alla vita divina.
Eppure, la croce non è ancora l'ultima parola del Dio dell'alleanza.
L'ultima parola sarà pronunciata in quell'alba in cui, prima le donne e poi gli apostoli, venuti al sepolcro di Cristo crocifisso, vedranno la tomba vuota e sentiranno, per la prima volta, l'annuncio: “È risorto” (Lc 24,6).
Essi lo ripeteranno ad altri e saranno testimoni del Cristo risorto al mondo intero.
Da quel momento credere nel Figlio crocifisso e risorto significherà “vedere il Padre”, credere che l'amore è presente nel mondo e che questo amore è più potente di ogni male in cui l'uomo, l'umanità, il mondo, possono essere coinvolti; e significherà anche credere nella misericordia.
La croce è come un tocco dell'eterno amore sulle ferite più dolorose dell'esistenza terrena dell'uomo; è il compimento sino alla fine del programma messianico che consiste proprio nella rivelazione dell'amore misericordioso verso i poveri, i sofferenti e i prigionieri, verso gli oppressi e i peccatori...
L'attuazione e la realizzazione di questo progetto si concretizza sulla croce ma attende un compimento definitivo.
Soltanto nel compimento escatologico e nel definitivo rinnovamento del mondo, infatti, l'amore, in tutti gli eletti, vincerà le sorgenti più profonde del male.
Il programma messianico di misericordia diviene, così, il programma del popolo, il programma della Chiesa. Al centro di questo vi è sempre la croce, poiché in essa la rivelazione dell'amore misericordioso raggiunge il suo culmine. Ma vi è anche la risurrezione che manifesta l'amore del Padre, che è più potente della morte, e apre alla vita eterna che è l'ultima meta, il compimento definitivo, dell'opera della misericordia di Dio; l'eredità a cui ha accesso ogni figlio che ritorna alla casa del Padre.
6. Chi ascolta ha la vita eterna
- La rivelazione su questo punto, che è l'ultimo che sviluppiamo, è molto chiara.
Gv 5,24-25 afferma che: “In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita. In verità, in verità vi dico: è venuto il momento, ed è questo, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio, e quelli che l'avranno ascoltata, vivranno”.
È molto netto e chiaro quel che dice Gesù: "Chi ascolta la mia parola... ha la vita eterna...".
Il Dio misericordioso, alla fine, viene definito e qualificato da un'attività fondamentale: dare la vita, comunicare la sua vita. Egli è, di fatto, il Dio vivificatore...
E noi cristiani abbiamo dato sempre tanta importanza alla "mortificazione", che è l'esatto opposto della vivificazione, ed è quasi assente nella Parola di Dio!
Gesù, che compie le stesse opere del Padre suo, che incarna la misericordia, ha sempre comunicato vita e garantito “vita eterna” a tutti noi.
Sembra di poter pensare che, qualunque sia la condizione di vita di una persona, l'ascolto della parola di Gesù e la fede in Colui che lo ha mandato, sia il passaggio dalla morte alla vita; dono della vita eterna e sottrazione totale al giudizio.
Il messaggio finale che traiamo dalla rivelazione della misericordia di Dio è proprio il fatto che Dio ci ama e nel suo amore agisce con misericordia verso tutti noi: perdona il peccato; ci libera dalle sue conseguenze; ci riammette nella dignità filiale, restituendoci l'eredità perduta.
Tornare a essere figli è tornare ad avere parte della stessa natura di Dio e della sua vita eterna.
Ma tutto questo non si realizza se non si entra in una dimensione di fede; e la fede, come sappiamo, viene dall'ascolto. È l'ascolto, dunque, in definitiva, che immettendo nella fede dona la partecipazione alla vita divina, alla vita eterna. La Parola di Dio ci ricorda sempre questa verità, a partire dall'invito chiaro del profeta Isaia: “Ascoltate e vivrete” (Is 55,3).
Un'espressione da ricordare a memoria perché ci evita il rischio del fariseismo; quando, cioè, si crede che ci si salva per la propria ineccepibile condotta e non per la grazia di Dio, che è la porta aperta verso un "ateismo pratico", poiché se non ho bisogno di essere salvato da Dio, Dio non serve a niente. Tutte le religioni sono esposte a questo pericolo, anche il cristianesimo, se non è ben chiaro questo principio cardine della fede.
Il v. 25 conferma e approfondisce tutto questo, affermando che ad ascoltare non sono persone in condizione "neutrale", ma sono "i morti"!
Ed è a questo punto che noi veniamo radicalmente coinvolti, come i "morti" ai quali il Padre e il Figlio danno la vita per amore. Questi "morti" non sono solo e non sono tanto coloro che hanno finito la loro vita mortale ma, più radicalmente, tutti noi chiamati alla salvezza e alla "vita nuova" nella casa del padre. Credere in Gesù e nel Padre vuol dire accettare il messaggio di Dio e il suo piano di salvezza per l'uomo; e vuol dire anche possedere la vita eterna, perché per mezzo della parola del Figlio, l'uomo entra in comunione d'amore col Padre e, quindi, nella vita divina.
Tutti gli uomini, morti spiritualmente per il peccato, sono in grado di udire la voce del Figlio di Dio, ma solo quelli che l'ascoltano (v. 24), aprendosi, così, alla dinamica della fede, entrano nella vita, trovando la forza di tornare a Dio.
Dunque, i morti di cui si parla sono quelli per i quali non c'è più niente da fare; morti non nel fisico ma nella sostanza della loro vita, quelli, cioè, che si trovano nell'abisso della disperazione, nel vuoto più assoluto. Come dice il padre del figliol prodigo: “Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”.
Questi, per pura grazia, "udranno la voce del Figlio di Dio, e quelli che l'avranno ascoltata, vivranno".
Evidentemente, si tratta dell'ascolto in senso biblico che implica: obbedienza e adesione totale alla Parola; radicale cambiamento delle proprie prospettive di vita; abbandono senza riserve a quello che la Parola dice, riconoscendo in essa l'unica verità che salva; come chi sta per annegare e si attacca con tutte le forze alla corda che gli viene gettata o come chi riceve una visita nella prigionia che gli porta una notizia di libertà e di luce.
È quella "Buona Notizia" che spesso sembra mancare sia nella nostra vita personale e familiare che nel cammino delle comunità cristiane.
La vita eterna è la vita pienamente realizzata, pienamente felice, pienamente bella, buona... È la vita a casa del padre.
Avere la vita eterna equivale ad ascoltare la Parola di Gesù, ad accogliere Lui.
Il verbo “ascoltare” si ritrova ben 58 volte in Giovanni.
I due discepoli del Battista seguono Gesù perché hanno udito la parola del loro maestro (Gv 1,35-36); i samaritani vanno incontro a Gesù, dopo aver sentito la testimonianza della samaritana (Gv 4,39).
La voce udita non è una voce qualsiasi, ma prende una risonanza esistenziale, personale.
Se ascoltata, la parola di Gesù diventa parola di vita eterna (Gv 6,68).
Se ascoltata, la voce di Gesù diventa voce del Figlio di Dio che è più potente del peccato e della morte (Gv 5,25.27-29); la voce del Pastore autentico (Gv 10,3-5.16.27); la voce del Maestro (Gv 11,28-29).
Il Battista e la Maddalena hanno percepito in lui la voce dello Sposo (Gv 3,29; 20,16).
Chi interiorizza questa voce arriva alla fede, alla comunione con Dio (Gv 15,3), alla gioia (Gv 14,28-30; 15,11; 17,13). Chi non la interiorizza sperimenta la morte.
“Il momento è questo in cui i morti udranno la voce del figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata vivranno”.
Ascoltare vuol dire far entrare nel cuore e nella vita colui che ci parla, Gesù il Signore.
Ascoltare è vita se l'ascolto ti fa aderire a Lui e al Padre che lo ha inviato; se ti mette in movimento per fare ritorno, per giungere al Padre e rientrare nel suo progetto d'amore e di salvezza per il mondo intero. Non è così semplice credere a un Dio che è Padre misericordioso, perché ciò chiede di aderire al suo progetto d'amore e di salvezza per tutta l’umanità. Significa chiamare tutti gli uomini fratelli e fare dell'amore la propria legge di vita... Questo significa riconoscere in Dio il Padre misericordioso!
E poiché il Padre ha la vita in se stesso e ha concesso al Figlio di avere la vita in se stesso, a motivo della loro piena comunione e dell'assoluta consegna dell'Uno all'Altro, così al Figlio è dato anche il potere di giudicare, ci dice Giovanni. E l'assoluta giustizia del giudizio esercitato da Gesù è garantita dalla sua piena adesione alla volontà del Padre. È possibile, pertanto, affermare con certezza che Gesù avrà un solo criterio di valutazione: la volontà del Padre che è volontà d'amore.
E concludiamo con questo pensiero.
Questo è il giorno, fratelli e sorelle, in cui dobbiamo renderci conto dell'amore che Dio ha per noi; del fatto che Egli ha per noi una chiara volontà di bene e che Gesù ce lo rivela in pienezza.
Gesù è il rivelatore dell'amore del Padre perché Lui è il dono d'amore del Padre per noi!
Dio ci ha amato tanto da donarci suo Figlio, come sappiamo da Gv 3,16: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito perché chiunque crede in Lui non muoia ma abbia la vita eterna”.
Nulla, assolutamente nulla, può cambiare questa verità!
Possiamo non accettarla, fare finta che non sia, ma questo non cambierà il fatto che Dio ci ama e che Gesù ne è la prova. E alla fine, colui che ascolta può farlo solo a partire da un amore fiducioso verso chi sussurra al suo cuore. Senza questo amore radicale e forte per il Signore, il cuore resta chiuso all’ascolto.
Egli è la parola che comunica vita comunicando lo Spirito, ma solo se il cuore lo riceve, lo accoglie; solo se accetta la misericordia, l'amore che gli viene donato.
All’inizio era la Ruah, lo Spirito di Dio che aleggiava sulle acque, che comunicava la vita!
Ora è Cristo che la comunica, come in una seconda creazione!
Dal suo cuore squarciato, che resta tale per l'eternità, viene riversato su tutti noi il sangue che ci purifica da ogni peccato e l'acqua che dona la vita, come profetizzò Ezechiele: “Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il fiume - che sgorga dal santuario - vivrà: il pesce vi sarà abbondantissimo, perché quelle acque dove giungono, risanano e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà. Lungo il fiume, su una riva e sull'altra, crescerà ogni sorta di alberi da frutto, le cui fronde non appassiranno: i loro frutti non cesseranno e ogni mese matureranno, perché le loro acque sgorgano dal santuario. I loro frutti serviranno come cibo e le foglie come medicina” (Cf. Ez 47,1-12).
Preghiamo, dunque, perché, come dicevo, questo sia il giorno della svolta decisiva nella nostra vita di fede.
Che il Signore ci aiuti ad aderire alla sua Parola, a non essere ascoltatori distratti e a vivere di ciò che abbiamo ascoltato, perché sia finalmente radicata in noi la certezza dell'amore divino, e perché, in forza del suo amore, Dio Padre, sempre all'opera con tutta la sua potenza, possa liberarci, grazie al Figlio, da ogni condanna e donarci la sua vita in pienezza per l'eternità.
Amen.