I Quaderni della Comunità n° 5/2009
Comunità S. Volto di Gesù
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IL
DISCEPOLO
(Padre Maurizio Napoli)
Per rafforzare la comunità devo essere discepolo
La volta scorsa abbiamo meditato insieme sulla realtà del Corpo di Cristo che è la Chiesa, che siamo noi, e abbiamo evidenziato il senso e l'essenza di questo Corpo e dell'appartenenza ad esso.
È evidente per tutti, credo, che per essere membra del Corpo di Cristo non basta avere incontrato il Signore; è indispensabile sceglierlo concretamente nella propria vita, seguendolo giorno dopo giorno. Stiamo parlando, cioè, della necessità del discepolato, della sequela di Cristo. Vedremo, pertanto, oggi, qualche riflessione ulteriore sulla comunità, tratta dal testo di Bonhoeffer “Vita comune” e, poi, la via che il Signore indica per arrivare a essere parte del suo Corpo come discepoli.
► Innanzitutto Bonhoeffer che afferma, a un certo punto del suo testo, che la fraternità cristiana è una realtà pneumatica, non psichica, dal momento che la comunione tra i credenti si fonda su Gesù Cristo.
La sacra scrittura definisce pneumatico, cioè spirituale, ciò che è creato dallo Spirito Santo, il quale fa entrare nel nostro cuore Gesù, come Signore e Salvatore.
Viene detto psichico, invece, cioè proprio dell'anima umana, tutto ciò che viene dalla natura umana.
- Il fondamento di ogni realtà pneumatica è la parola di Dio, la verità; mentre il fondamento delle realtà psichiche sono gli impulsi e i desideri dell'anima, la brama dell'altro.
- Essenza della comunione spirituale è la luce poiché: “Dio è luce e in Lui non vi è tenebra” (1Gv 1,5).
Essenza della comunione psichica è l'oscurità, infatti: “Dal cuore dell'uomo escono i cattivi pensieri” (Mc 7,21).
- Chi è stato chiamato da Cristo vive nell'agape, nel servizio fraterno e nell'umile sottomissione che caratterizzano la comunione spirituale. Mentre la comunione psichica è per le anime guidate dall'eros, che sono portate a un disordinato desiderio di godimento della comunione e, nell'apparenza dell'umiltà, nascondono il desiderio di sottomissione del fratello ai propri desideri.
- Nella comunione spirituale lo Spirito Santo ha ogni potere, onore e dominio, mentre nella comunione psichica prendono il sopravvento gli individui più dotati, ricchi di esperienza e capacità di suggestionare, che legano a sé gli altri e alimentano la sfera di potere e influenza personale.
- Da ciò, l'osservazione più importante: nella comunione spirituale non c'è mai un rapporto immediato dall'uno all'altro; mentre nella comunione psichica si alimenta un profondo, primitivo desiderio psichico di comunione, di incontro diretto con gli altri, dove predomina il più forte psichicamente, capace di suscitare ammirazione, amore e venerazione in chi è più debole, annullando la mediazione di Cristo.
Il servizio, quando c'è, è apparenza che nasconde la brama di possesso dell'altro, di prendere la sua vita nelle proprie mani e cercare di plasmarla secondo la propria idea.
Nell'amore psichico si è anche capaci di grandi cose, ma si ama l'altro per amore di se stessi; mentre nell'amore spirituale si ama l'altro in Cristo.
L'amore psichico, dura finché si riesce ad appagare questa brama dell'altro. Quando non è più possibile l'altro diventa un nemico e l'amore si converte in odio, disprezzo, calunnia.
- Nell'amore spirituale, invece, il mediatore è Cristo, che indica il modo giusto di amare e spinge al servizio, non alla brama. E Cristo è la vera immagine dell'altro che non posso che rispettare nella sua piena libertà, per quel che è e non per l'idea che me ne sono fatto.
► Quanto afferma Bonhoeffer ci porta, necessariamente, a cercare di capire qual è la via da percorrere per arrivare ad essere un vero discepolo di Cristo.
Lo faremo approfondendo l'espressione di Gesù riportata da Matteo:
“Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Mt 16,24).
Ne evidenzieremo i tre punti chiave: Seguire Cristo / Prendere la propria croce / Rinnegare se stessi.
1. SEGUIRE CRISTO
Chi è il discepolo?:
È colui che ha incontrato il Signore
Che ha fatto esperienza di Lui; che ha trovato in Lui il senso della vita e si è lasciato conquistare; che è stato chiamato per stare con Gesù e per essere, poi, inviato (Mc 3,14); che ha saputo rispondere, mettendosi in cammino, perché si è fidato e ha osato.
È colui, dunque, che ha lasciato ogni cosa, perché ha incontrato Gesù (Mt 13,44-46) e ha deciso che Egli è Via, Verità e Vita (cf. Gv14,6) nella sua esistenza.
Ma è solo conoscendo l’amore del Signore e accettando la propria profonda povertà che si può obbedire al comando: “Vieni e seguimi”.
È colui che ascolta il Signore
Che si lascia formare dalla sua Parola. E, come dicevamo, la condizione fondamentale perché ci sia un vero ascolto della Parola, è l’amore fiducioso per Colui che, attraverso di essa, parla al nostro cuore.
Senza un amore radicale e forte per il Signore, il nostro cuore resta chiuso all’ascolto della sua voce.
Ascoltare vuol dire far entrare nel nostro cuore e nella nostra vita Gesù che ci parla.
È colui che segue il Signore
Che prende una via, non una qualunque, ma la via di Gesù: “Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini” (Mc 1,27).
Seguire vuol dire assumere un destino, mettersi in cammino, uscire dalle proprie sicurezze.
Quando Gesù chiama qualcuno perché lo segua non dà nessuna spiegazione; non dice il motivo per cui chiama. Si tratta di un invito molto esigente e serio, perché in virtù di questa chiamata si abbandona la famiglia (Mt 4,22;8,22; Mc 10,28), il lavoro (Mt 4,20.22; Mc 1,18), i propri beni (Mt 19,21.27).
Insomma, si tratta di qualcosa di estremamente serio, poiché suppone un cambio totale nella vita di una persona (Mc 10,17-22).
In alcuni casi l’invito che Gesù fa di seguirlo è sorprendente e forte.
La sequela non ammette condizioni e suppone una decisione radicale, che rompe con il passato e si apre a un compito e a un destino totalmente nuovo.
È colui che diventa testimone di Gesù.
Il discepolo è chiamato per “stare” con Gesù (Gv 1,39) e per essere, poi, inviato: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni… Ecco, io sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,19-20).
Il prototipo del discepolo è il martire, colui che diventa testimone, con le parole e con la vita, di ciò che ha visto, toccato e sperimentato: “Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, noi lo annunziamo anche a voi”(1Gv 1,1.3b). Questi accompagna Gesù fino alla croce, senza tirarsi indietro; ha fiducia e speranza; non conta sulle proprie forze, ma si fida di Lui; crede che l’amore è più forte della morte (Gv 19, 25-27).
È colui che porta la croce
Quando Gesù invita i suoi discepoli a seguirlo, mette anche delle condizioni e una di queste è proprio portare la croce.
La croce è il prezzo che paga chi è capace di essere fedele fino in fondo, credendo e amando senza mezze misure.
Portare la croce vuol dire avere il coraggio di liberarci dai nostri interessi e progetti personali, per assumere il progetto di vita di Gesù.
Chi segue Gesù deve impegnarsi con Lui a “perseverare nelle sue prove” (Lc 22,8), compresa la persecuzione (Gv15,20).
E questo comporta seguirlo senza condizioni, disposti a giocarsi la vita, anche se non lo si capisce fino in fondo, fidandosi di Lui che ci precede.
2. PRENDERE LA PROPRIA CROCE
Pertanto, prendere la propria croce è essenziale se si vuol essere discepoli di Gesù.
A volte nel cercare di comprendere cosa significa essere un vero cristiano si tende troppo a semplificare, a sostituire la sostanza con l'apparenza, a far leva sulle emozioni passeggere invece di puntare a scelte ponderate, anche dolorose, ma durature.
Gesù ha affermato, in modo categorico e serio, quali sono le condizioni per appartenergli e per essere eredi con Lui del regno dei cieli: "Non chiunque dice: Signore, Signore! Entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli" (Mt 7,21), e ancora, ripetiamo: "Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua" (Mt 16,24).
Certo nessuno di noi può guadagnarsi la salvezza perché essa è il dono di Dio, ma si può perderla non comprendendo qual è la via da seguire.
Essere cristiani non è la decisione di un momento, ma la scelta di una vita.
Bisogna scegliere da che parte stare: con Dio, condividendo la sua volontà, o con il mondo.
Se vogliamo essere suoi discepoli, dobbiamo fare delle scelte, dobbiamo prendere la nostra croce.
Cosa vuol dire?
Significa morire al mondo
Noi diciamo: Il mondo non è più per me, voglio essere del Signore! Ma è veramente così?
Morire al mondo richiede un atto di fede definitivo, che risulta da un atteggiamento ben chiaro nei confronti della vecchia natura che è stata crocifissa con Cristo.
Il cammino di discepolato, dunque, di santità pratica, passa dalla crocifissione "dell'uomo vecchio".
Quanti di noi possono dire di avere crocifisso il "vecchio uomo"? Quanti di noi possono affermare: "Signore non la mia volontà ma la Tua volontà sia fatta", qualunque sia la sua volontà su di noi?
Seguire Cristo portando la croce significa morire a noi stessi e vivere per Lui.
Gesù volle rendere ancora più chiaro questo concetto dicendo che: "Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, sua moglie, i fratelli , le sorelle e persino la propria vita, non può essere mio discepolo" (Lc 14,26). Ci ha dato una scala di priorità sulla cui cima dev'esserci Lui.
Come possiamo dire di aver preso la sua croce e di seguirlo se poi pensiamo, più d'ogni altra cosa, alla carriera, alla salute, ai nostri comodi, ai nostri cari, a soddisfare i nostri desideri?
Chi è morto al mondo non ha sogni che riguardano solo lui o i suoi cari, ma il suo sogno sarà soddisfare pienamente il Signore e vivere per questo.
Portare la croce e morire al mondo è l'unico modo per vivere nella libertà dei figli di Dio.
"Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà: ma chi avrà perduto la sua vita per amor mio, la troverà" (Mt 16,25).
Significa morire al peccato
L'apostolo Paolo aveva ben chiaro ciò che voleva intendere Gesù ed era per questo che esortava i credenti dicendo: "Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui perché fosse distrutto il corpo del peccato e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto è ormai libero dal peccato" (Rm 6,6-7).
Ciò significa che abbiamo chiuso con il peccato, perché un uomo morto non pecca più.
È bene accertarsi se veramente si è morti al peccato. Non si tratta qui di verificare se siamo assassini o adulteri o altro. Penso che tra noi non ci sia questo. Ci sono, però, dei peccati che sfuggono alla coscienza o che vengono giustificati inconsciamente e razionalmente in tanti modi.
Essere morti al peccato significa essere morti a ogni forma di peccato.
Facciamo qualche esempio tratto dalla scrittura:
- "Nell'ira non peccate" (Ef 4,26). L'ira, cioè i risentimenti che ardono lentamente in noi; le irritazioni nascoste; le malignità coltivate nella mente; le collere che all'improvviso scoppiano. Tutti peccati che vengono tollerati con facilità. Adirarsi e non peccare è possibile quando, come Gesù, ci si adira contro il peccato e le ipocrisie e non contro i peccatori e gli ipocriti.
- "Chi è avvezzo a rubare non rubi più" (Ef 4,28). Menzogna e furto sono peccati assai comuni e sono spesso poco considerati nel mondo. Chi si converte a Cristo, deve abbandonare la condotta del mondo.
Il furto va considerato sotto tutti i punti di vista: ogni sorta di profitto illecito, di sotterfugio, di cattivo uso del denaro, di parassitismo, di rifiuto di pagare i debiti o le tasse e di compensare chi lavora per noi, è furto. Così come togliere a Dio ciò che dovrebbe essergli dato. (Mal 3,8).
Sei veramente morto al peccato? Giudichi il peccato che è attorno a te con lo stesso ardore con cui lo faceva Gesù, oppure ti sei abituato a conviverci? Pensi anche tu che tanto tutti fanno così, che altrimenti non è possibile vivere? Il Signore usa parole chiare per coloro che vogliono essere discepoli:
"Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria, cose tutte che attirano l'ira di Dio su coloro che disobbediscono. Anche voi un tempo eravate così, quando la vostra vita era immersa in questi vizi. Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca. Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore" (Col 3,5-10).
Significa identificarsi con Cristo
Chi è il tuo eroe? A chi vorresti assomigliare? Chi vorresti essere?
L'apostolo Paolo non aveva dubbi e per questo poteva affermare: "Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me!" (Gal 2,20). Ecco chi era l'eroe di Paolo: Cristo Gesù, il Signore!
Noi, come discepoli, siamo chiamati ad assomigliare al Maestro, a identificarci con Lui, con i suoi atti, con le sue parole, con la sua visione.
E identificarsi con Cristo significa:
- Avere i suoi desideri. Non un cuore che batte per le cose del mondo ma che aspira alla realizzazione del regno di Dio sulla terra e alla gloria, nel cielo.
- Avere i suoi scopi. Non vivere per noi stessi ma vivere per la salvezza dei peccatori e per l'edificazione del corpo di Cristo.
- Essere disposti a patire le sue sofferenze. Vogliamo seguirlo sempre, sia quando si tratta di entrare con Lui trionfanti in Gerusalemme, sia quando si tratta di seguirlo nel Getsemani e sulla croce.
- Avere il suo cuore. Un cuore che batte per tutti, che ama tutti disinteressatamente, che vede in ogni creatura un potenziale figlio di Dio e una persona per la quale Cristo è morto.
- Odiare il peccato. Pur amando i peccatori, come Cristo, siamo chiamati a odiare il peccato e a giudicarlo come la Parola di Dio lo giudica. Siamo chiamati a identificarci con Cristo, portando la nostra croce.
Sei veramente discepolo di Gesù Cristo?
Non c'è discepolato senza la rinuncia a se stessi e senza prendere la propria croce.
Se siamo impegnati in questo siamo a buon punto. Dio ci darà forza e grazia per essergli sempre più graditi.
Essere discepoli di Cristo vuol dire, quindi, appartenergli.
Ma non è possibile appartenergli se non impariamo a rinnegare noi stessi.
3. RINNEGARE SE STESSI
Così, eccoci all'ultimo aspetto da sottolineare: il rinnegamento di sé.
Rinnegamento di sé come condizione della sequela
L’interpretazione dell’espressione 'rinnegare se stessi', può essere così riassunta: significa ‘dire di no’ al proprio io, non in quanto è qualcosa di negativo o cattivo, ma in quanto esso si pone in contrasto, in opposizione, in alternativa alla sequela di Gesù.
Ne abbiamo un chiaro esempio, che mostra questo contrasto in azione, nell'episodio di Pietro (cf. Mc 8,33) dove Gesù ha contrapposto il pensare / sentire secondo gli uomini al pensare / sentire secondo Dio.
Alla luce di quell'episodio, rinnegare se stessi significa:
- smettere di pensare / sentire secondo gli uomini e adeguarsi al modo di pensare / sentire secondo Dio che Gesù rivela e che si accoglie concretamente solo seguendo Lui;
- non seguire indiscriminatamente i desideri, le inclinazioni, i progetti e gli impulsi del proprio io, ma discernere quelli che sono in contrasto con Gesù e rifiutarli.
In un altro contesto troviamo l’espressione ‘rinnegare se stessi’, con Gesù come soggetto:
“Se con Lui perseveriamo, con Lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, anch'Egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, Egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2Tm 2,12-13).
‘Rinnegare se stesso’ qui significa rinunciare al proprio essere, alla propria natura profonda. Gesù non può rinnegare la sua natura fedele, degna di fede, e rimane tale anche quando gli uomini diventano infedeli.
Questa ‘rinuncia al proprio essere’ è il senso dell’espressione 'rinnegare se stessi', rivolta in forma di imperativo a chi vuole seguire Gesù: non devo affermare me stesso, il mio essere, né aggrapparmi a esso, ma sacrificarmi in una rinuncia radicale.
La salvezza della vita viene solo dall’unione con Gesù. Questa condizione impone di ‘perdere la vita’, cioè rinunciare alla volontà di possedere e plasmare la vita a partire da se stessi, dall’affermazione di sé a qualunque costo. Lasciare questo è, in concreto, ciò che significa ‘rinnegare se stessi’ e ‘prendere la croce’.
Il frutto di questa perdita è la sequela, la comunione con Gesù, che salva la vita, donando vita vera e piena.
Ma se l'uomo può realizzare se stesso soltanto con Gesù, e non seguendo il proprio io in contrasto con Lui, è necessario essere in comunione stretta con Lui e questa comunione non la si può vivere ‘a distanza’, ma solo seguendo da vicino il maestro, partecipando interamente al suo destino (compresa la croce).
Si tratta di riconoscere in Gesù la rivelazione di un valore, una meta, una misura di realizzazione di sé superiore a ogni altra nostra misura (compresa quella scritta nella nostra natura umana), e come l’unica in grado di rispondere adeguatamente alle nostre attese.
Il vangelo, pertanto, ci invita a invertire il punto di vista: non dobbiamo guardarci e poi chiederci in che cosa dobbiamo dire di no a noi stessi. Occorre, invece, guardare a Gesù e chiedergli:
Signore, dove sei, perché io possa stare con te?
Cosa devo fare per restare in comunione con te?
Che cosa in me e attorno a me si oppone a questa comunione con te, e deve essere rinnegato e lasciato?
Rinnegamento di sé e ricerca della vita
Siamo di fronte al ‘rovesciamento’ evangelico del nostro modo di pensare e di vivere: perdere per trovare; rinnegare per affermare; offrire per ricevere; abbassarsi per essere innalzati. L’affermazione di sé porta alla negazione; il rinnegamento porta a ritrovarsi.
Rinnegare, allora, non è per un di meno, ma per un di più; non è un fine ma una tappa intermedia, il cui termine è la vita in pienezza.
Gesù parla di sé come Colui che dà la vita (Mt 20,28; Mc 10,45; Gv 10,11), e indica nel 'dare la vita per gli altri’ la misura massima dell’amore (Gv 15,13).
Egli si propone concretamente come modello di quella perdita di sé necessaria per ritrovarsi.
Non si tratta di un'operazione intellettuale, ma della disponibilità ad assumere, come criterio della propria realizzazione e felicità, non i propri desideri e valori ma quelli di Gesù, che sono orientati al dono di sé, in obbedienza al Padre, per amore dei fratelli.
In questo dono della vita si vede la consistenza dell’amore che da Gesù è donato ai discepoli e da loro ai fratelli. Ed è in nome dell’amore che trova senso il rinnegamento di sé.
Rinnegamento di sé e croce di Gesù.
Perché bisogna rinnegare se stessi? Perché Gesù ha fatto così.
E perché Gesù rinnega se stesso? Per obbedire al Padre.
Gesù, con la sua vita in totale obbedienza al Padre, è il modello di quella negazione di sé che Egli ha richiesto ai suoi seguaci; negazione il cui motivo fa parte del mistero di Dio; un motivo che Gesù non ‘spiega’, ma che ‘mostra’ con la sua vita.
L’illustrazione più completa, pertanto, di cosa significhi rinnegare se stessi è la passione e morte di Gesù che si può contemplare, nella forma più cosciente e libera, nel momento in cui Gesù invoca il Padre nel Getsemani. Lì viene presentato in modo concreto e inequivocabile che cosa significa ‘dire di no a se stessi’ (“non ciò che Io voglio, ma ciò che vuoi Tu”) e la sua ragione ultima: non ha senso dire di no a sé se non per poter dire di sì a Dio e accogliere la vita come un suo dono.
SANTO VOLTO DI GESU’
Tel. e fax 011-7395152
Via Refrancore, 86/6 - presso “Centro della
Divina Misericordia” - Torino
Venerdì ore 16 e sabato ore 15,30 incontro
di preghiera e di guarigione.
Quarta domenica di ogni mese (da settembre
a giugno) ore 9-12 preghiera di guarigione
comunitaria delle ferite emozionali; ore
14,30-18 culto a Gesù misericordioso,
intercessione ed eucaristia.
(pro - manoscritto ad uso interno della comunità)