I Quaderni della Comunità n° 6/2010

 

Comunità  S. Volto  di Gesù

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(pro - manoscritto ad uso interno della comunità)

 

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Roba da preti (n.2)

Un giorno lungo una settimana

(di Alberto Maggi)

 relatore: Padre Maurizio Napoli

 

 

Muzzano - Agosto 2010

 

RISUSCITATO? (introduzione alla seconda parte)

Scrive Paolo alla comunità cristiana di Corinto che "se Cristo non è stato risuscitato, vana dunque è la nostra predicazione e vana pure è la vostra fede" (1Cor 15,14).

Ma come si può credere che Gesù sia veramente risorto? I vangeli sembrano non aiutare in questo. Infatti nessuno dei Vangeli descrive la risurrezione del Cristo ma, comunque, offrono preziose indicazioni su come sperimentarlo risorto.

L'esperienza della risurrezione di Gesù non è un privilegio concesso a qualcuno duemila anni fa, ma una possibilità per i credenti di tutti i tempi.

Le riflessioni che seguono (trasmesse dalla Radio Vaticana, per la settimana santa) offrono spunti sul tema della risurrezione di Gesù, partendo dall'ultima cena.

 

QUALE ULTIMA CENA? (Mt 26,20-29; Mc 14,17; Lc 22,14-27; Gv 13,1-20)

Come sarà stata l'ultima cena? Qualcosa di romantico, come l'hanno sempre raffigurata gli artisti? Secondo i vangeli sembra proprio di no:

·       Scrive Luca che, in quella notte, Gesù si dona da mangiare ai suoi e annuncia la sua morte imminente e il tradimento di uno di loro, mentre i suoi discepoli discutono tra loro di chi fosse il più importante, dimostrando, come sempre, di non aver capito niente.

·       Giovanni riporta il rifiuto di Pietro di farsi lavare i piedi, perché non capisce il gesto.

·       Marco e Matteo smascherano Giuda che sta calcolando il suo guadagno dal tradimento...

Tutte scene che non si accordano con l'atmosfera d'intensa e commossa spiritualità di tante opere d'arte che conosciamo... È davvero la notte del fallimento.

 

Pazienza le folle, ma chi ha condiviso tutto con Lui, proprio questi, non hanno capito niente del suo messaggio e pensano alla propria carriera...

E Giuda?... Con lui Gesù ha fallito completamente.

Il traditore si è chiuso a ogni offerta di vita di Gesù, rimanendo intrappolato nel suo groviglio di interessi e di odio omicida.

- Ma in questo totale fallimento Gesù non si scoraggia.

In mezzo all'incomprensione e ostilità più totale, ama i suoi discepoli sino all'estremo.

 

 

 

Non rimprovera né rinfaccia, e non offre loro discorsi o gesti anche portentosi, ma trasforma il suo amore in dono, offrendo tutto se stesso: "Prendete, mangiate: questo è il mio corpo" (Mt 26,26).

Quel pane è Lui che:

·       dona a dei meschini ambiziosi tutta la sua capacità d'amare.

·       si offre come Colui che alimenta l'uomo donandogli vita eterna.

E questa offerta di vita è per tutti.

A Gesù non interessa il nostro passato, ciò che siamo o abbiamo combinato... Ci offre la possibilità e la forza di realizzare pienamente la nostra vita, di diventare come Lui.

 

UN VANGELO POCO SPIRITUALE (Gv 13,1-20)

Perché per il giovedì santo, solenne celebrazione della "Cena del Signore", la liturgia propone la lavanda dei piedi? Perché è la condizione per comprendere e partecipare alla cena di Gesù. L'evangelista ci richiama alla realtà. Non sono ammesse fughe spirituali.

Lavare i piedi ai discepoli non è un gesto di umiltà di Gesù, ma un insegnamento per la futura comunità di credenti; per noi. Lavare i piedi era un compito da inferiori: del servo al padrone, della moglie al marito, dei figli al padre, dei discepoli al proprio maestro.

 

Gesù, così facendo, dimostra di non riconoscere le disuguaglianze tra quelli che servono e quelli che vengono serviti. Servendo l'altro non perdiamo in dignità, ma acquistiamo quella vera, quella divina.

L'unica grandezza, per l'uomo, consiste nell'essere come Gesù: dono totale e gratuito di se stesso.

Per questo Gesù lava i piedi ai suoi discepoli. Se lo chiamano Maestro devono imparare da Lui la disponibilità ad amare incondizionatamente. E l'amore per non essere vuoto e sterile deve farsi servizio.

Gesù il Signore, lavando i piedi e facendosi servo, non si abbassa: innalza noi al rango di Signori!

La sua opera di salvezza non si compie dall'alto verso il basso, come un'elemosina, ma dal basso verso l'alto, innalzando l'uomo al livello divino.

Solo se si comprende che il servizio non ci diminuisce ma, al contrario, ci rende grandi, è possibile partecipare pienamente alla cena del Signore, dimostrazione di un amore che si dona nel servizio, comunicando vita a quanti lo accolgono.

 

L'UNICO LINGUAGGIO COMPRENSIBILE (Gv 8,28; Mc 15,33.39)

Nonostante tutto ciò che Gesù ha fatto e insegnato non è riuscito a far comprendere chi fosse.

Solo nell'ultimo giorno della sua vita, inchiodato alla croce, il patibolo dei maledetti da Dio, debole, sfinito, morente, incapace di parlare e di manifestare la potenza di Dio, qualcuno capirà chi è.

L'aveva detto: "Quando avrete innalzato il figlio dell'uomo, allora conoscerete che io Sono" (Gv 8,28).

Strano modo di manifestarsi per un  Dio; così strano che gli uomini non lo concepiscono.

La nostra fantasia non sarebbe mai giunta a tanto... Dio, per noi, deve manifestarsi nella potenza, non nell'agonia di una croce. Eppure, è proprio "avendolo visto spirare in quel modo" che qualcuno capisce.

Non i suoi familiari o i suoi discepoli, tanto meno i sacerdoti o le persone pie, ma un soldato romano, un pagano, che dice: "Veramente, quest'uomo era Figlio di Dio!". Come ha fatto a capirlo? Da che segno è arrivato a questa conclusione?

Il centurione è pratico di crocifissioni, ne ha eseguite tante, e sa quale vomito di odio e disperazione può sprigionarsi da un uomo straziato dall'agonia della croce.

Quell'uomo che ha davanti, circondato da un'atmosfera satura di odio, tradito e abbandonato da tutti, sputacchiato e deriso, insultato e calpestato, nello strazio dell'agonia, dimostra che il suo amore non è stato vinto dall'odio e continua a perdonare, a salvare, a consolare.

Un uomo capace di morire così, di dare la vita per gli altri, di parlare il linguaggio universale, comprensibile da tutti, credenti e non, che è il linguaggio dell'amore, per il centurione non può che essere Dio perché il linguaggio dell'amore, non c'è dubbio, è il linguaggio di Dio.

UN MORTO CHE DÀ VITA (Gv 19,30)

Gli evangelisti, attenti ai termini che adoperano nel presentarci il mistero di Dio, evitano di usare il verbo morire per descrivere la fine di Gesù: in nessuno dei quattro vangeli si trova scritto che Gesù morì.

Al posto di morire gli evangelisti adoperano un verbo greco tradotto poi con spirare, che diverrà il termine tecnico per indicare la morte di qualcuno.

Ma spirare, col significato di morire, non si trova in nessuno scritto greco per indicare la morte di una persona...

Scrivendo che "Gesù, emesso un alto grido, spirò" (Mt 27,50), gli evangelisti, dunque, intendono indicare l'effusione dello Spirito sugli uomini.

Questo significato viene espresso chiaramente nel vangelo di Giovanni, dove si legge che Gesù: "Chinato il capo, consegnò lo Spirito" (Gv 19,30).

 

Giovanni ci dice che Gesù è stato consegnato da Giuda alle guardie, dalle guardie a Caifa, da Caifa a Pilato e da Pilato ai carnefici... una serie di azioni indirizzate alla morte (Gv 18,20-35;19,16). Ora Gesù consegna lo Spirito in un'azione che comunica vita.

Il sonno della morte, non solo non interrompe la vita di Gesù, ma è l'occasione perché questa si manifesti in pienezza nella consegna dello Spirito che comunica vita.

Lo Spirito di Dio, la forza vitale proveniente dal Padre, che Gesù ha ricevuto in pienezza, viene ora consegnato a quanti l'accettano come modello di vita, disposti ad affrontare anche la morte, pur di non rispondere con violenza alla violenza.

 

I sommi sacerdoti credevano di avere ucciso Gesù, di averlo tolto di mezzo; ma l'atto d'amore estremo di Gesù, come unica risposta all'odio che lo ha inchiodato alla croce, lo rende, come il Padre, datore, fonte di vita.

Questo, però, non per tutti ma solo per quanti dirigono la propria vita al bene dell'uomo, rompendo col proprio passato ingiusto per collaborare con Gesù alla creazione del regno di Dio, anche a costo dell'infamante supplizio della croce riservato alla feccia della società.

Questi ricevono la stessa forza di Gesù, il suo Spirito dato senza misura, che li aiuta a diventare figli di Dio, a essere come Gesù: fecondi e capaci di effondere vita attorno a loro.

 

EPPURE CI DEVONO ESSERE (Gv 18-19)

Se sfogliamo i vangeli con attenzione, scopriremo che Gesù non cade mai portando la croce.

Le cadute sono solo citate nel pio esercizio della Via Crucis, ma non nei vangeli.

Gesù, di fatto, non cade sotto la croce. Lo fanno cadere gli uomini che proiettano in Gesù le loro debolezze; ma nei vangeli non è così.

Particolarmente Giovanni, non presenta un Gesù trascinato dagli avvenimenti, una vittima, rassegnata e sconfitta che va verso il supplizio.

A Gesù nessuno toglie la vita. Lui stesso la dà per poi riprenderla: "Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso. Ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo" (Gv 10,18).

·       La fine di Gesù non è la sua sconfitta: è la sconfitta del mondo!

·       La sua morte non è la distruzione di una vita, ma il trionfo dell'amore del Padre.

 

Gesù, cosciente di questo, non si sottrae alla cattura ma si consegna volontariamente, dando la vita per eliminare il peccato del mondo.

Le scene della passione non sono state descritte per commuovere.

Presentano un Gesù che non protesta mentre viene ridicolizzato dai soldati romani, dicendoci, così, che Egli accetta di essere spogliato da ogni falsa grandezza perché si manifesti il vero senso della sua regalità.

 

Quei soldati, pensando di schernire Gesù, distruggono, invece, l'idea di potere e di grandezza dell'uomo stesso.

Nel momento in cui la gloria umana è ridicolizzata, distrutta, brilla più che mai la gloria vera, quella dell'Uomo/Dio e Gesù può presentarsi come la piena realizzazione del progetto del Padre sull'umanità: "Ecco l'uomo!" (Gv 19,5).

Mano a mano che il processo e le torture vanno avanti, Gesù, "Luce del mondo" (Gv 8,12), splende più che mai, dimostrando che le tenebre non hanno il potere di soffocare la luce (Gv 1,5), come l'odio non ha potuto sopraffare l'amore.

Per questo Gesù, prendendo la croce, s'avvia verso il luogo dell'esecuzione: è Lui che prende l'iniziativa, come se avesse fretta di manifestare l'amore di Dio e liberare l'uomo.

Gesù, sulla croce, non è una vittima distrutta dal peso dell'odio degli uomini, ma l'unica vera manifestazione di Dio.

Il crocifisso ci manifesta la piena realtà dell'uomo e di Dio:

·       Dio è il Padre che ama di un amore gratuito e incondizionato l'uomo;

·       l'uomo è colui che, accolto il suo amore, lo traduce in dono di sé, fino a dare la vita.

 

HANNO DIMENTICATO IL PROFUMO (Gv 12,1-8;19,38-42; Mc 14,3-9)

Gesù muore sulla croce e viene deposto in un sepolcro.

Delle pie donne si stanno recando là per comporre la sua salma, ma si sono dimenticate di portare il profumo; quel profumo che Gesù aveva chiesto di conservare per la sua sepoltura.

Era il "nardo puro, di gran valore" (Gv 12,3) con cui Maria, sorella di Lazzaro, cosparse i piedi di Gesù e profumò tutta la casa, come ringraziamento per il dono della vita comunicata a suo fratello. Questo profumo era espressione della vittoria della vita sulla morte: al fetore irrimediabile della morte, che Marta temeva per suo fratello, si oppone il profumo della vita. Quel nardo costò quanto un anno di lavoro di un operaio.

 

Eppure, Maria lo versa: il dono della vita sorpassa ogni prezzo. Solo Giuda protesta, perché era ladro. Aveva scelto come proprio dio, il denaro. Anziché dare, toglie; per questo è già morto e non tollera il profumo della vita. Per lui è uno spreco. Nel vangelo di Marco l'omaggio di questo profumo è talmente importante per Gesù da essere l'unico avvenimento della sua vita che chiede espressamente di far conoscere al mondo intero.

Gesù non chiede di raccontare delle guarigioni, dei prodigi, dei discorsi; chiede che sia fatto conoscere ovunque questo profumo; il profumo della vita capace di superare la morte: "In verità vi dico che in tutto il mondo, dovunque sarà predicato il vangelo, anche quello che costei ha fatto sarà raccontato, in memoria di lei" (Mc 14,9).

Gesù chiede di conservare questo profumo perché, al momento della sua morte, lo usino di nuovo, dimostrando di credere ancora alla vittoria della vita sulla morte.

Ma le donne vanno al sepolcro per imbalsamare Gesù col mezzo    quintale    di     aromi     procurati    da    Nicodemo,  

per ritardare gli effetti della morte: non hanno creduto che Gesù possedesse in sé la pienezza della vita.

Il profumo di Betania era l'espressione:

·       dell'omaggio a Gesù vivo;

·       della fede nella vita capace di vincere la morte;

·       della liberazione di Lazzaro dai lacci della morte.

Se avessero conservato tale profumo avrebbero dimostrato di credere nella vita che è più forte della morte. Invece, intendono onorare un cadavere e legarlo strettamente nelle fasce della sepoltura.

-        E oggi, come si celebra la risurrezione del Signore? Portando gli aromi per imbalsamare Gesù o celebrando un rito in ricordo della sua risurrezione? Incensando un sepolcro vuoto, o credendo nell'inestimabile profumo di una vita capace di superare la morte?

 

Se tutta l'attenzione è centrata a celebrare un sepolcro vuoto e non a un incontro con Gesù, vivente e vivificante, corriamo anche noi il rischio di imbalsamarlo.

Si può imbalsamare Gesù avvolgendolo nelle bende del rito e profumandolo d'incenso, purché resti lì, seduto alla destra di Dio. Risuscitato e glorioso, sì, ma lontano dagli uomini e dalle loro pene quotidiane...

"Perché cercate tra i morti colui che è vivo?" (Lc 24,5).

Gesù è vivo e non è lontano; è in mezzo a noi ("lo sono con voi tutti i giorni", Mt 28,20) e con noi collabora alla realizzazione del regno di Dio ("Il Signore operava insieme con loro", Mc 16,20); quel mondo dove ognuno si prenda cura del benessere e della felicità dell'altro.

L'unica prova della risurrezione di Gesù non è un sepolcro vuoto, ma una comunità dove nessuno sia bisognoso: "Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore. Nessuno infatti tra loro era bisognoso" (At 4,33-34).

IL SEPOLCRO E IL GIARDINO (Gv 19,41-42)

Giovanni scrive, stranamente, che nel luogo dove hanno crocifisso Gesù, un luogo dove avvenivano le esecuzioni capitali, "vi era un giardino" (Gv 19,41).

Al Golgota, che significa "Luogo del Teschio" (Gv 19,17), emblema di morte, Giovanni affianca, improvvisamente, un luogo di vita: un giardino... La morte e la vita fianco a fianco.

L'evangelista intende, così, affermare che dentro il luogo della morte c'è la vita.

Nel giardino, scrive Giovanni, c'era "un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto" (Gv 19,41).

Un sepolcro in un giardino! Il luogo della morte per eccellenza, un sepolcro, sta nel luogo della vita.

 

Gesù inaugura una nuova epoca, una nuova specie di morte, che contiene in sé una potenza vitale che la supera e ne annulla gli effetti.

Con Gesù il sepolcro non è più luogo di morte definitiva, perché dentro questa morte esiste la vita; per questo il sepolcro è nel giardino.

Le donne vanno a cercare Gesù nel sepolcro, ma Gesù non può essere in un sepolcro, perché la sua vita non termina con la morte.

In Gesù si è realizzato pienamente il progetto del Padre sull’uomo che non prevedeva la morte ma la vita per sempre: “Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura” (Sap 2,23).

Cercare Gesù tra i morti significa non incontrarlo mai. Per incontrarlo bisogna cercarlo nel giardino, luogo di vita, compiendo scelte che producono e comunicano vita.

 

ESAMI DI RIPARAZIONE (Mt 28,8-16)

Gesù è risorto e va alla ricerca di quanti: "lo abbandonarono e fuggirono" (Mc 14,50).

E ora che li ha recuperati e rassicurati uno a uno, che ha mostrato loro che è proprio Lui e non un fantasma, vuole comunicargli il suo Spirito, la forza che darà loro la capacità di essergli fedele.

Ma il Signore non li trova ancora preparati; non hanno ancora accettato il suo modo di vivere e non hanno capito la sua morte, che considerano inutile.

Per questo li rimanda a un esame di riparazione, da farsi dopo cinquanta giorni, a Pentecoste.

Li invita, intanto, a ripercorrere i suoi passi dall'inizio, dalla Galilea, dal luogo dove è iniziata la sua missione; perché ora che hanno fatto l'esperienza della risurrezione, della vita che sconfigge la morte, possono comprendere la profondità dei suoi gesti e delle sue parole: il perché di certe scelte; il significato di certi discorsi sulla via, la vita, la risurrezione.

E il giorno di Pentecoste, la festa che gli Ebrei celebravano per ricordare il dono della Legge sul monte Sinai, scende con forza lo Spirito sulla comunità dei credenti (At 2).

A quanti accolgono Gesù come modello di vita e il suo messaggio come norma di comportamento, il suo Spirito darà la forza per collaborare con il Padre alla realizzazione del regno di Dio e per infondere vita sull'umanità intera.

Inoltre, l'effusione dello Spirito Santo non si limiterà al momento della Pentecoste ma sarà una continua esperienza di comunicazione di energia vitale che rende l'uomo capace di amare, così com'è amato, di un amore gratuito e incondizionato, che non esclude nessuno, e che alimenta l'uomo continuamente, portandolo a sviluppare pienamente la sua umanità, nella condizione di figlio di Dio.

 

INCROCI PERICOLOSI (1Gv 4,10)

Gesù è risorto, è vivo, e assicura che sarà sempre con gli uomini. Per questo chiede di non stare col naso per aria, perché si rischia di non accorgersi della sua presenza in mezzo alla comunità dei credenti. Ha anche assicurato di essere sempre con noi, dando forza alle nostre azioni.

Non è facile districarsi nel linguaggio teologico che cerca di esprimere questo incrocio tra umano e divino, tra cielo e terra.

Si è tentati di pensare di dovere salire, spiritualizzarsi, angelizzarsi, per arrivare a Dio.

Invece il Signore, per comunicarci la sua vita divina, si è fatto uomo come noi, è disceso; precedendoci, amandoci, Lui per primo: "Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi", ci dice Giovanni (1Gv 4,10).

 

È finita la confusione. Non c'è più un alto e un basso, cielo o terra, una linea verticale e un'altra orizzontale, la sfera del divino e quella dell'umano, ma un'unica linea, quella dell'amore, del dono incondizionato di sé; un'unica sfera d'amore dove Dio e l'uomo sono una cosa sola, dove a Dio che diventa uomo risponde l'uomo che diventa Dio: "La gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano uno come noi siamo uno. lo in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'uno" (Gv 17,22).

Questa unica realtà non tende né verso l'alto, né verso il basso, ma si espande, abbracciando e avvolgendo tutto: il cielo diventa terra e la terra diventa cielo, realizzando i cielo nuovo e la terra nuova, dove le cose vecchie sono passate e sono nate le nuove: "lo creo nuovi cieli e una nuova terra; non ci si ricorderà più delle cose di prima" (Is 65,17).

 

UN GIORNO LUNGO UNA SETTIMANA (Gv 20,19-31)

Il racconto della risurrezione inizia con l'espressione: "Il primo giorno della settimana" (Mt 28,1; Mc 16,2; Lc 24,1; Gv 20,1).

In tutti e quattro i vangeli, con questa espressione, s'intende alludere alla creazione che iniziò appunto il "primo giorno", come si legge nel Libro della Genesi (Gen 1,5).

La risurrezione di Gesù è l'inizio della nuova creazione, della nuova e definitiva umanità.

Questo primo giorno, contraddistinto dalla vittoria definitiva della vita sulla morte, non termina più; è il giorno che non conosce tramonto: "Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli" (Ap 22,5).

 

È, dunque, il giorno in cui "la luce splende nelle tenebre" (Gv 1,5) e la vita trionfa sulla morte.

E in questo giorno la comunità si riunisce per celebrare nell'Eucarestia il dono di tale vita; di Gesù che è presente, al centro della comunità, come fonte della vita e della pace che sconfigge la paura e la morte.

Gesù comunica la pace, la serenità e la felicità, mostrando ai discepoli la ragione per cui possono mettere da parte la paure: mostra loro le mani e il costato trafitti, i segni permanenti del suo amore. Lo stesso amore che lo ha spinto a dare la vita per i suoi, rimane per sempre.

 

Le sue mani piagate ma libere, rappresentano la capacità d'amore di Gesù, che né i chiodi né la morte possono arrestare. Il costato, trapassato dalla lancia, dice il perpetuarsi dell'effusione del suo amore che risana.

Per questo Gesù chiede di non aver paura: l'amore che lo ha spinto a difenderli, a far sì che, consegnandosi alle guardie, potessero salvarsi, rimane.

Egli è sempre il pastore pronto a dare la sua vita per le pecore, e su questo amore si fonda la sua parola rassicurante: "Pace a voi!".

E la ripete una seconda volta perché siano certi che Egli è garante della loro felicità.

Il giorno della risurrezione, il primo e unico della settimana della nuova creazione, continua ogni giorno e in ogni eucarestia, dove la forza di quel "Pace a voi" si trasmette a tutti noi che, accogliendola, ci facciamo responsabili della felicità dei nostri fratelli.