Modena, 8 gennaio 2000
CONFLITTUALITA’ DELL'UOMO DI FRONTE ALLA MALATTIA
Aldo Giordano
 
Il tema del dolore è bruciante e misterioso, ma inevitabile. Esso è sempre di impressionante attualità: c'è il dolore dei singoli e c'è il dolore dei popoli. A livello personale esso emerge nella sua radicalità con il volto della morte delle persone amate: penso ad un papà ed una mamma che vedono spirare, impotenti, il proprio bambino. A livello storico esso ritorna come tragedia estrema nel grido di popolazioni intere che sono esposte al destino del massacro, dello sradicamento sistematico e delle violenze più inaudite: in questi tempi, nella nostra Europa, abbiamo negli occhi gli eventi del Kosovo, ma nemmeno possiamo dimenticare l'olocausto incessante di gruppi e di popoli che da anni ferisce l'Africa.
Non si può affrontare l'argomento della sofferenza se non con "timore e tremore". Infatti è un aspetto dell'esistere umano a cui si addice più il silenzio che la parola, talmente è personale, enigmatico, scandaloso e inesauribile. E' uno dei temi a cui si deve applicare ciò che Ludwig Wittgenstein, filosofo contemporaneo del linguaggio e delle scienze, esprimeva nell'ultima famosa proposizione del suo Tractatus: "Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere"3 .
E' molto rischioso pretendere di parlare del dolore. E' indicativo il fatto che chi soffre spesso non si esprime più in modo normale, ma grida o sceglie il silenzio. Il nostro dire tradisce qualcosa di insondabile e di indicibile e quindi deve contenere il silenzio e la misteriosità. D'altra parte sento anche la verità di un'espressione del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche che nella prefazione ad una sua opera affermava: -- "Dobbiamo parlare solo di ciò di cui non possiamo tacere" 4 . Il dolore è anche un tema su cui non si può tacere. Non possiamo infatti stendere un velo di oblio su una questione che appartiene così seriamente al nostro esistere. Il soffrire richiede insieme il silenzio e la parola.
L'ottica di questa riflessione è filosofico-teologica. L'utilità di questa prospettiva appare nel momento in cui percepiamo che nella malattia, negli abbandoni personali, nella morte, nel dolore storico, è implicato tutto l'uomo. La questione del dolore, infatti, non è solo una questione tecnica - scientifica - sociale - giuridica -psicologica - economica - storica..., ma impone il rimando alle domande basilari per qualsiasi esistenza umana: chi è l'uomo nella sua globalità - che senso ha il soffrire - cosa è la morte - c'è un senso alla storia - esiste l'essere o il nulla - esiste l'eterno - chi decide la qualità della vita...
Questa ottica porta anche a prospettare il superamento del dualismo non sofferenti- sofferenti (come se la realtà del dolore interessasse solo qualcuno) per attingere un punto di vista unitario dove la sofferenza, come situazione limite, appare un luogo dove "esplodono" domande che non appartengono a qualcuno, ma all'uomo come tale, a ciascun uomo.
In particolare mi guida l'interrogativo se la vita umana debba inesorabilmente bloccarsi nel dualismo tra il desiderio che c'è nell'uomo ed il fallimento del desiderio che coincide con l'esperienza del dolore. Infatti tutti conosciamo l'aspirazione alla vita, all'amore, alla felicità, alla festa, all'eterno che è insita in ognuno e l'inesorabile scacco a questi desideri che viene dalla realtà del dolore. Per questo siamo sfidati ad andare alla ricerca di qualche traccia di luce che ci indichi che il nostro desiderio alla fine non sarà sconfitto, perché il dolore non è la parola ultima.
 
l. DUE ESPERIENZE.
Dopo queste premesse vorrei fare il mio ingresso nell'argomento attraverso due esperienze.
La prima è quella di Raffaele. Pochi anni dopo il suo matrimonio, padre di due bambine, si è ammalato di sclerosi multipla e per diciotto anni è vissuto con una malattia che lo ha progressivamente consumato. Negli ultimi anni pesava circa trenta chili, era immobilizzato e comunicava solo gli occhi. Eppure in quella casa, qualcosa ci attirava in modo straordinario: era l'amore della moglie, delle figlie e probabilmente anche il suo che non potevamo più capire. Quando due anni fa ha lasciato questa terra, durante il funerale, abbiamo chiesto alla moglie se voleva dire qualcosa. Lei ha detto, davanti al corpo di suo marito: "Venticinque anni fa ti ho sposato e ti ho promesso fedeltà nella buona e nella cattiva sorte, ma ora voglio dire a tutti che non esiste "cattiva sorte". Ed era una mamma che aveva convissuto diciassette anni, ogni notte, ogni giorno, con un male distruttivo. Questa esperienza, che è stata importante per la vita di tanti ed anche per la mia, mi spinge a rinnovare sempre la ricerca se sia veramente possibile dire: "non esiste cattiva sorte". Questa domanda percorre come filigrana la riflessione che propongo in questo saggio.
La seconda esperienza riguarda una tragedia della storia. Mi è rimasta in cuore la prima visita che ho fatto al Lager di Dachau già diversi anni fa. Appena entrati nel campo di concentramento avevamo potuto visitare un museo dove erano documentati i crimini compiuti in quel luogo anche con foto e filmati. Un silenzio sempre più pesante penetrava nella nostra anima, man mano che procedevamo in quelle sale. Appena usciti dal museo, mentre camminavamo muti sulla distesa di sabbia bianca dove un tempo c'erano le baracche dei prigionieri, una ragazza che era con me mi ha chiesto improvvisamente: "E Dio dov'era quando succedevano queste cose?". Il silenzio in me è divenuto ancora più forte ed ho continuato a camminare, senza tentare alcuna risposta. Poco tempo dopo abbiamo raggiunto la cappella del monastero in fondo al Lager, abbiamo pregato l'ora media della liturgia ed il primo salmo del giorno conteneva l'espressione: "Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?"5 Il mio sguardo e quello della ragazza si sono incrociati: in quella domanda del Salmo intuivamo la risposta.
Questa seconda esperienza mostra che la questione del dolore, al suo vertice pone la questione stessa di Dio. Se vogliamo dispiegare il problema del dolore fino in fondo dobbiamo raggiungere questo vertice.
 
2. LA SOFFERENZA COME ROTTURA - DIVISIONE.
Pur in modo molto sommario, indichiamo ora, in modo progressivo, i vari livelli dell'esistere umano che sono toccati dall'esperienza del dolore, già indicati in queste due esperienze. Soprattutto se facciamo riferimento ai casi limite del soffrire come la malattia terminale o il Lager, osserviamo che la sofferenza (e la morte in modo definitivo) appare come una rottura che si manifesta a vari livelli.
Essa alle volte lacera i rapporti con il proprio corpo e le sue capacità: insorge il dolore fisico, crolla l'efficienza, svanisce la bellezza, spesso si è progressivamente corrosi... Ma più in profondità la sofferenza, in genere, spezza i rapporti con la propria psiche: sembra scomparire la libertà, nasce la paura di non essere più amati, si ha l'impressione di non essere più fonte di gioia per le persone che si amano, si è pervasi dal senso di essere una delusione e quando il pensiero si rivolge al futuro il buio diventa più intenso per il timore della dipendenza, della debolezza, di un dolore più grande. Quindi è anche il rapporto con gli altri che si complica o si rompe, con il rischio dello sprofondare nell'estrema solitudine. Ma in ultimo si presenta ancora un ulteriore livello di divisione: dietro ogni soffrire appare in qualche modo la signoria della morte che separa dall'esistenza stessa ed apre all'angosciosa possibilità del niente.
 
3. LA SOFFERENZA COME NON-SENSO.
Se la vita è esposta ad una serie di "rotture", legate al dolore, ed è destinata allo scacco finale, è ancora possibile parlare di un senso dell'esistere? Senza unità, cioè nella lacerazione con se stessi, con gli altri e con l'essere stesso, non si trova più la strada per lo scopo. Non solo la sofferenza appare insensata ed inutile, ma essa sembra diffondere l'ombra dell'inutilità sulla vita stessa nella sua globalità.
Siamo così approdati ad un altro livello della problematica del soffrire, quello del tormento esistenziale e mentale che spesso è più terribile del dolore fisico. Esso scaturisce dalla convinzione che la sofferenza, che sembra non avere altro risultato che quello di produrre ulteriore sofferenza, appare sprecata, assurda e senza senso. Chi la vive non è più soggetto, perché non agisce, ma è l'oggetto di un destino crudele, ingiusto, capriccioso e arbitrario. E' emblematico un testo di Nietzsche: "L'uomo era principalmente un animale malaticcio: ma non la sofferenza in se stessa era il suo problema, bensì il fatto che il grido della domanda "a che scopo soffrire?" restasse senza risposta ( ... ) L'assurdità della sofferenza, non la sofferenza, è stata la maledizione che fino ad oggi è dilagata su tutta l'umanità". E Saint-Exupéry, analogamente, ha un’immagine particolarmente suggestiva: "Vogliamo essere liberati. Colui che dà un colpo di piccone vuol sapere che il suo colpo di piccone ha un senso. E il colpo di piccone dell'ergastolano, non è affatto lo stesso del colpo di piccone del cercatore di miniere. L'ergastolo non sta dove si danno colpi di piccone. L'orrore materiale non esiste. L'ergastolo sta dove vengono dati colpi di piccone che non hanno alcun senso, che non ricollegano colui che li dà alla comunità. E noi vogliamo evadere dall'ergastolo".
E l'uomo di sempre con passione e con ansia ha cercato delle risposte, dei sentieri di liberazione. Ma anche se guardiamo con interesse al travaglio della ragione davanti al dolore, tuttavia dobbiamo riconoscere la povertà filosofica in questi territori della sofferenza. Si è preferito spesso l'oblio per le categorie della distruzione: quelle che fanno "iattura" all'essere o sopprimendolo o dilaniandolo. Il tentativo di razionalizzazione, tipico della ricerca filosofica della nostra tradizione, non è facilmente coordinabile con ciò che esprime lo scacco della razionalità: si crea uno spazio vuoto. Sullo scenario culturale sono apparsi tentativi di filosofie senza il dolore (da Parmenide a Spinoza): l'essere è uno, perfetto, razionale e il caduco, il moriente, sono pura apparenza. Si sente in esse l'influsso dell'Oriente con il suo panico dissolvimento nel Tutto-Nulla. D'altra parte chi ha preso sul serio la realtà del negativo, del lato oscuro dell'esistere, del male, è spesso approdato al tragico: la vita è un non-senso. Altre prospettive di pensiero offrono invece suggerimenti per posizioni eroiche, titaniche, animate dall'amor fati.
In tempi più recenti il tema è meno disatteso. Una testimonianza particolarmente significativa è l’analisi del Sein zum Tode (Essere-per-la-morte) di M. Heidegger. L'angoscia sperimentata dall'uomo che sente lo sprofondare nell'insignificanza di tutto il mondo, mette la persona davanti all'esistenza come tale, davanti alla propria responsabilità. La morte, poiché è la possibilità più propria dell'uomo, in cui nessuno può farsi sostituire, fa uscire dal modo di esistere della banalità e impersonalità quotidiana e costringe a vivere in prima persona. Il tentare di nascondere la morte, di renderla un tabù - spesso da parte del potere - è invece favorire l'inautenticità, la spersonalizzazione della massificazione e quindi è un favorire il potere.
E' anche urgente notare come il problema del dolore, della morte è il movente forse più interiore del diffondersi attuale di tanti gruppi o sette dove si coltivano cammini e interpretazioni gnostiche - occulte - esoteriche - vitalistiche - panteistiche.
 
4. LA QUESTIONE DEL SENSO E IL PROBLEMA DELLA VERITA' SULL’UOMO.
Abbiamo visto come la sofferenza appare immediatamente come rottura e come la divisione rimanda alla questione del senso della vita, ma occorre andare avanti nel cammino: l'interrogazione sul senso implica l'ulteriore problema del chi è l'uomo, la domanda circa la verità sull'uomo.
E' una sfida molto impegnativa rimetterci oggi sulle tracce dell'uomo nel tentativo di averne una comprensione "vera", cioè ampia, rispettosa della ricchezza di tutti gli elementi, armonica, bella, unitaria e non povera, parziale, unilaterale, ridotta, frammentata, cioè ideologica. Si percepisce ancora la difficoltà a considerare la questione della verità nel cocktail culturale attuale, soprattutto perché siamo reduci da due particolari filoni di pensiero che hanno reso impervio il ritornare alle questioni di fondo. Una certa cultura, figlia - in qualche modo - dell'epoca della "morte di Dio" e del "nichilismo compiuto", ha provato a restringere il campo della visione dell'uomo e della qualità della vita all'immediatamente soggettivo, biologico, vitale e terrestre, senza legami al passato e al futuro, senza "fondamenti che fondino" senza apertura all'oltre. Si è diffusa la persuasione che la vita si poggi su speranze "corte" e che quindi le uniche consolazioni siano il mito dell'onnipotenza soggettiva, il culto del corpo bello e sano, secondo il modello giovanilistico... Co-protagonista di questa cultura di tipo radicale può essere considerato l'affermarsi dell'ideologia scientista-tecnologica con la relativa caduta dell’ "intenzionalità filosofica", secondo l'espressione del filosofo Edmund Husserl. Se i problemi seri dell'uomo sono quelli immediatamente concreti, il sapere unico che interessa l'uomo è ovviamente quello scientifico, in grado appunto di affrontare i problemi del concreto. L'ideologia scientista, in realtà, non ha niente a che fare con la vera scienza, in quanto si afferma un processo ideologico quando un punto di vista sul reale, come quello di una scienza, pretende di essere l'unico punto di vista e di esaurire tutta la ricchezza dell'umano. Questo è pericoloso perché impone delle visioni molto impoverite e violente della realtà. E' come se un occhio, un orecchio, una gamba ... pretendessero di essere tutto l'uomo, invece di accettare di essere un contributo per la ricchezza e la bellezza globale dell'uomo.
La civilizzazione tecnologica occidentale sembra abbia anche tra l'altro abbassato la soglia psicologica di tolleranza del dolore. Sempre più riemerge l'importanza del ricupero del pensiero meditante, contemplante accanto a quello calcolante. Proprio la filosofia dovrebbe essere questa ricerca che deve ricuperare il pensiero della meraviglia, prendendo in conto e instaurando la domanda circa il valore globale e ultimo dell'uomo.
 
5. LA SOFFERENZA E LA REALTA' DI DIO.
Ancora un passo avanti: la ricerca di chi è l'uomo coincide, nella sua radicalità, con la domanda sull'Assoluto. E' la decisione davanti all'Assoluto che "decide" anche chi è l'uomo e se consideriamo l'uomo attraverso la lente dell'esperienza del dolore scopriamo che, in ultimo, l'uomo pone l'interrogativo sul senso della sofferenza proprio a Dio. E' la questione di Giobbe che sempre ci ricade addosso, attraverso i dolorosi interrogativi dei fratelli Karamazov di Dostoevskij, riecheggiati nella Peste di Camus o nel grido lancinante di Auschwitz... Quale il rapporto tra Dio ed il dolore dell'uomo?
Per Ivan Karamazov, per esempio, la sofferenza inutile, cioè quella innocente, quella dei bambini, porta ad un appello davanti al quale sembra rispondere il silenzio della divinità. Di qui nasce la ribellione contro un Dio crudele o, più radicalmente ancora, la negazione d'un Dio ingiusto. Per Ivan è inammissibile la concezione sostenuta da alcuni che la sofferenza sia necessaria per la costruzione di un piano divino sul mondo. Nessuno accetterebbe di essere architetto d'un mondo costruito su quella base. Se il mondo è assurdo e senza senso, cioè contiene in sé un dolore immotivato, si dovrà riconoscere che Dio non esiste.
 
6. DAL RIFIUTO - ALL'INVOCAZIONE - ALLA RISPOSTA. 
Soprattutto la sofferenza innocente e inutile diviene il grido dell'umanità che cerca le vie per essere illuminata e liberarsi dal dolore. Nella lacerazione rinasce la domanda dell'unità. Siamo riportati alla sfida radicale: è possibile vincere il dolore? E' possibile andare oltre?
Ancora in Nietzsche ho trovato espressa questa sfida in modo suggestivo. Nella prefazione alla sua opera La Nascita della tragedia il filosofo tedesco s'interroga circa i Greci antichi. Soprattutto in un certo romanticismo i Greci erano visti come un popolo festoso, danzante, amante della vita. Nietzsche, però, si domanda: perché i Greci hanno scritto le tragedie, se avevano una visione della vita tanto positiva e ottimista? I Greci in realtà avrebbero tentato l'impresa più seria. Essi erano coscienti che nella vita esiste il dolore, la lacerazione, la tragedia, ma hanno cercato di trasfigurare questa sofferenza in un'opera d'arte, un capolavoro, uno spettacolo da teatro. La tragedia vitale diventa una tragedia artistica. Ecco la grande sfida: è possibile che il dolore diventi un'opera d'arte? Ed al termine di quest'opera Nietzsche scrive: "Se noi potessimo immaginare un farsi uomo della dissonanza - e che cos'altro è l'uomo? - questa dissonanza avrebbe bisogno, per poter vivere, di una magnifica illusione, che coprisse con un velo di bellezza il suo stesso essere"8 . E in Così parlò Zarathustra il filosofo tedesco afferma: "E il senso di tutto il mio operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in uno ciò che è frammento ed enigma e orrida casualità".
L'andare oltre il dolore e la frattura è mero sogno di un poeta? E' pura illusione artistica? o esiste una via?
 
7. LA CATTEDRA DEL CRISTO CROCIFISSO.
Se nella vita, come uomini e donne, fossimo soli, avremmo come unica chance quella di cercare di salvarci da soli! La situazione umana potrebbe essere paragonata ad una scalata in montagna con la quale si potrebbe andare anche molto in alto e conquistare mete grandi, ma che alla fine dovrebbe confrontarsi con un abisso inatteso e insuperabile, quello del dolore e della morte. "Alla fine" saremmo ancora dei disperati.
La grande notizia che la storia ci ha dischiuso è che non siamo soli. La ricerca umana che s’interroga sul perché esistano il dolore e la morte e che rischia la disperazione, può trovare, in modo unico, nell'evento storico del cristianesimo una cattedra del tutto inattesa: quella di un Dio crocifisso (Logos tou staurou). Il Dio Crocifisso non dà una spiegazione al dolore, ma lo prende su di sé e ne libera l'umanità. La sofferenza rimane scandalosa e incomprensibile, ed è conseguenza del peccato dell'uomo, ma Dio stesso l'ha presa su di sé, vivendola sino in fondo e, così facendo, annullandola. Se non ci fosse il Dio sofferente, il nostro dolore rimarrebbe senza senso. Non siamo soli perché possiamo ripartire dal Dio che ci è venuto incontro fin dentro la profondità delle lacerazioni dell'uomo e della sua storia.
Questa è la più grande sfida per i cristiani: ritornare ad imparare dall'unica cattedra che apre la possibilità di una scia di luce: il Cristo crocifisso fuori le mura che entra negli abissi
delle divisioni della storia e all’interno della ferita vive un amore che è dono totale di sé, un amore che vince il dolore, le divisioni e la morte stessa. Nel Cristo anche il dolore e la morte non sono più mera distruzione, ma passaggio.
La sofferenza inutile perde molto del suo carattere di scandalo di fronte ad uno scandalo infinitamente più grande, quello della sofferenza di Dio stesso. Ogni altro scandalo si affievolisce se anche Dio soffre e vuol soffrire. Nessuna morte di Dio "culturale" è andata così lontano come la morte di un Dio in croce presente al cuore del cristianesimo. La sofferenza di Dio è l'unica risposta che si può dare al problema del dolore. Nello spazio vuoto creato dal dolore è accaduta la novità di un evento che ha tolto al dolore ed alla morte l'ultima parola. La morte è distrutta dalla Risurrezione. Se il soffrire è lacerazione, ora la divisione è assunta dal Cristo che si fa Lui stesso separazione, fino al gridare "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" : il grande abisso.
La novità: questo divenire niente, questo spazio, questo abisso è riempito totalmente da Gesù con l'amore, è amore. Il non-essere, progressivamente sperimentato nelle grandi sofferenze e quindi nella morte, può essere gestito dalla libertà e divenire spazio per il dono di sé e per l'esperienza di un'estasi d'amore. Il Cristo che si dona fino alla morte è anche il Risorto: la realizzazione dell'uomo (la qualità della vita) sta nel donare la vita. La vera libertà nasce là dove improvvisamente non si ha più paura dei signori di questo mondo e del signore dei signori che è la morte.
Senza distanza, distinzione, separazione, si rimane nell'egologia totalizzante, senza possibilità di scoprire l'altro da me, senza possibilità di un rapporto, di un amore, ma, d'altra parte, il mero rimanere nello spezzamento, nella distanza, nella vuota separazione è vivere la negatività del dolore, è la caduta nel nonsenso. Il Cristo crocifisso e risorto ha abitato lo spezzamento, senza eliminare la distinzione. Se già l'esperienza puramente umana ci mostra che lo spazio creato dal dolore può divenire luogo di partenza dalla landa egologica/egoistica e dalla sicurezza che proviene dalle cose che ci circondano, per avviare verso nuovi orizzonti di conoscenza, di sapienza, di creatività, di essenzialità, di scoperta della preziosità delle piccole cose, verso le ultime profondità, verso lo sperare l'insperato; la comunione con il Cristo morto e risorto rende questo "spazio del dolore" luogo di una partenza fino all'Invisibile, di un'apertura aldilà dei limiti dello spazio e del tempo. Il Cristo ci ha fatto vedere che la sofferenza può divenire uno spazio dove accade la gratuità, il disinteresse, il non possesso, il prendersi cura autentico, la non violenza, tipici dell' amore come carità.
Il Dio crocifisso ci porta ancora oltre. Egli ci squarcia il mistero stesso dell'Essere, dell'Assoluto. L'Essere è trinitario. In Lui c'è una distinzione, un "negativo" (il Padre non è il Figlio e il Figlio non è il Padre), ma in Dio il "non" non può essere male e fallimento. In Lui la "separazione-distinzione" vive nella più piena unità. Il Dio cristiano è unità e distinzione insieme. Se esistesse solo la separazione sgorgherebbe una logica duale che porta alla conflittualità ed alla disgregazione. Se esistesse solo la totalità, non ci sarebbe la possibilità di una comunione, di un rapporto, di un amore, ci sarebbe logica totalitaria - monolitica.
Il dolore umano, unito al Cristo sofferente, diviene icona (pur sempre terrena e quindi condizionata dal peccato) di quella distinzione ("ferita") che c'è in Dio stesso. In Dio essa è totalmente abitata dall'Amore, cioè la terza persona della Trinità: lo Spirito Santo.
Anche il dolore (momento di distinzione/separazione) può essere abitato dall'amore (momento dell'unità). Ma senza distinzione non c'è possibilità autentica di amore. L'essere è ferito, perché l'amore è ferito.
 
8. 1 SEGRETI DEL VIVERE
8.1. Ripercorrere le orme del Cristo Crocifisso e Risorto.
E' sulle orme del Cristo, ripercorrendo i suoi stessi passi, contenuti tutti in sintesi ed in modo culminante nel momento dell'abbandono sulla croce, che anche noi possiamo imparare la via per dare un contributo ad asciugare le lacrime dell'umanità.
Il primo passo è avere il coraggio di seguire Gesù là, fuori le mura, fino al suo grido di abbandono, dove anche il cielo e la terra appaiono separati. Non si può stare a guardare le ferite, le non riconciliazioni, dal di fuori, ma occorre entrare dentro le ferite e le divisioni, per ,"soffrirle fino in fondo.
Quel Dio entrato nelle ferite, diventa Lui totale separazione e ferita. Il Cristo accoglie in sé la ferita, l'assorbe e così la blocca. Quando esplodono conflitti, normalmente, l'uno trasmette all'altro il conflitto e l'uno scarica sull'altro la responsabilità. Il Cristo in croce non ha cercato il colpevole, ma ha assunto su di sé la divisione. Il conflitto s'interrompe solo quando qualcuno non lo trasmette ad un altro, né cerca il colpevole, ma lo blocca in sé. Questo è il secondo passo per un cammino di "riconciliazione".
Il Crocifisso che assume in sé la separazione e la ferita, diventa Lui uno spazio immenso, aperto, che è in grado di accogliere tutti, soprattutto chi porta nella vita la croce ed anche i lontani da Dio. Ogni uomo, in quanto toccato dal dolore e dal frutto del male, appartiene già al Crocifisso. Anche le persone che, nella sequela del Cristo, prendono su di sé le fratture, diventano luogo di accoglienza senza riserve e senza frontiere.
Ancora un'altra dimensione della riconciliazione emerge nella Pasqua di Gesù. La violenza, la divisione, non riescono alla fine a rubare la vita a Gesù, perché quella vita Gesù la dona per puro amore e non si può più rubare ciò che è già stato regalato. Il Cristo rivela che il senso della vita sta nel donarla. Il chicco di frumento nella spiga è una realtà bella, ma se non muore rimane solo. Se muore (dona la vita per amore) porta frutto e nasce la compagnia. E questo amore vince anche la morte. Il Crocifisso è il lato nascosto del volto splendido del Risorto. Una morte per amore (donare tutto) non è morte, ma vita. Il perdere la bellezza e lo splendore per amore è la via per una bellezza eternizzata. Se tutti gli uomini conoscono le lacrime, pochi uomini sanno che nessuna lacrima andrà persa e che anche la morte è solo un passaggio. Questa notizia è stata affidata alla Chiesa ed essa ha la responsabilità di dirla al mondo, innanzitutto vivendo nella "propria casa" questa realtà della presenza del Risorto tra i suoi.
 
8.2. L'immensità dell'attimo presente.
Vivere la nostra storia con la presenza del Risorto significa aver trovato il segreto per far sì che il tempo non sia la rapina a tutte le cose. Infatti è il tempo il nostro più grande problema: è il tempo che rende tutte le cose vulnerabili e sottoposte alla corruzione. Dopo la venuta di Dio nella storia, il tempo è diventato un "Kairòs" cioè un momento favorevole, un'occasione opportuna ed ogni minuto, ogni ora del tempo, può diventare un momento favorevole, una grande occasione. L'Eterno, entrando nel tempo, ha eternizzato il momento del tempo che ha vissuto, infatti, pur entrando nella storia, non ha cessato di essere Dio e così ci ha aperto il segreto per far sì che ogni attimo diventi eterno. Questo è uno dei capisaldi del vivere: siamo chiamati a non vivere di ricordi, di nostalgie, perché il passato è passato, né a preoccuparci del futuro che non esiste ancora e forse non esisterà mai, ma possiamo vivere totalmente nel momento presente, sapendo che ogni attimo è un "kairòs", un tempo non più fuggente, una novità, anzi, può essere realmente "1a grande novità". Ciò che ha trasformato l'attimo della morte del Cristo nell'eterno della Risurrezione è stato l'Amore. L'amore del Padre e l'amore
del Figlio: è l'amore che salva, non la sofferenza per se stessa. Il fatto che Gesù viva la sofferenza totalmente per amore salva se stesso e l'umanità. Anche noi possiamo, seguendo Gesù, vivere ogni attimo nell'amore.
 
8.3. Tutto passa, ma l'amore rimane.
Sappiamo che quando nella vita scende il buio e sorgono il dolore, la delusione, il tradimento, la solitudine, diventa difficilissimo ed eroico amare, ma Gesù crocifisso ci dice che è ancora possibile - e che quello è un amore più puro e più grande degli altri.
Certo è amore quello di due ragazzi innamorati, vissuto nella spontaneità della vita, ma è più grande l'amore tra due persone che non hanno grande attrattiva reciproca e ancora più grande l'amore quando ci sono problemi di salute o altre forme di debolezza o inimicizie. Più grande diventa la distanza, più difficile è amare, ma se si ama ancora, accade un amore più puro, più limpido, più vicino all'amore di Dio, perché totalmente gratuito. E' difficilissimo, ma è possibile e se si ama così, ogni attimo diventa eterno.
 
8.4. Farsi compagni discreti della vita dell'altro.
Se la vita si decide sull'amore, la responsabilità di coloro che accompagnano le persone segnate dal dolore o giunte alla fine della vita diviene enorme. Spesso sono chiamati ad amare anche per chi non ha più la forza di farlo. E’ compito primo dell'amore difendere i deboli, gli ultimi, i più poveri: i malati terminali, i portatori di handicap, gli anziani, i depressi, i disperati...
L'amore decide anche la questione della qualità della vita ed il valore dei momenti del vivere. Esso porta alla rinuncia della pretesa onnipotente sulla vita ed al rispetto della misteriosità di essa. La mia vita, il mio dolore e la mia morte sono qualcosa di più e di diverso da quello che gli altri possono pensare su di me e di quello che io stesso posso pensare su di me. Nessuno sa fino in fondo cosa la propria vita significhi per gli altri e cosa la propria vita possa generare per gli altri, come nessuno sa cosa avvenga nel momento della morte e cosa possa vivere un uomo in quell'istante. Non sappiamo cosa possa significare un attimo di vita di una persona. Se l'amore rende ogni attimo eterno, ogni attimo della vita diventa di un valore incommensurabile. Nella vita sperimentiamo tutti degli attimi della vita che risultano "immensi": un incontro, un volto, un dolore, un concepimento... Da a pensare l'incontro del cosiddetto "buon ladrone" con Gesù in croce: quell'attimo ha radicalmente cambiato tutta la sua vita ed ha deciso la sua eternità. Tutto sarebbe andato perduto, se quell'uomo non si fosse presentato a quello che era l'appuntamento della sua vita, l'unica cosa veramente seria della sua esistenza.
Se io sono costituito da un Altro, il rinunciare alla pretesa di essere io il padrone della mia vita e l'affidarmi all'unico che conosce il mistero della mia vita ed anche il mistero della morte è la via della salvezza. Questi accenni possono essere utili anche per pensare a questioni gravi come l'eutanasia o l'accanimento terapeutico. Anche chi non è credente può intuire questa misteriosità ed il senso di un affidarsi.
 
Conclusione
Concludo questo contributo riandando ancora alla vita vissuta, ad un incontro molto importante per la mia vita che mi ha testimoniato l'aprirsi di un oltre dentro l'esperienza del dolore. Prima di trasferirmi in Svizzera, vivevo con un mio confratello sacerdote, pochi anni più di me, colpito da una male grave che gli rende difficili soprattutto i movimenti. Prima andavamo insieme a sciare, salivamo le montagne e poi la malattia gli ha progressivamente impedito tutte queste avventure. Questo mio confratello, un giorno, mi dice: "voglio fare una raccolta di gufi, gli uccelli della notte. Ho letto un testo di un padre della chiesa, che dice che i gufi hanno occhi talmente grandi, che riescono a vedere anche nella notte, cioè riescono a vedere che anche la notte ha le sue stelle". Adesso ha circa ottocento gufi, prodotti di artigianato, provenienti da tutte le parti del mondo. Con questo confratello ancora una volta ho intravisto che anche la notte ha le sue stelle ed i suoi colori. La favola di Peter Pan racconta della case delle fate. Esse sono diverse dalle altre case, perché le altre si vedono di giorno, mentre quelle delle fate si vedono di notte, perché anche la notte ha i suoi colori, ha i suoi azzurri, i suoi blu, i suoi gialli.... e sono colori più vivi, perché hanno dietro una luce.